Tatti Sanguineti ha recuperato e curato una nuova edizione del film La Rabbia di Pier Paolo Pasolini. A distanza di 45 anni da quel 1963 in cui, in forma di documentario, dava voce, poesia e testimonianza degli avvenimenti del suo tempo, la pellicola colpisce per la sua straordinaria attualità.
È l’attualità della testimonianza che va al di là della storia perché attinge nelle forme archetipe della passione, della tragedia e dell’etica le sue forme espressive. Pasolini non è solo testimone del suo tempo presente, ma lo è di quella realtà incessante che è l’uomo nel suo esistere. Comunque la si voglia mettere, la questione è e rimane l’uomo, l’umanità nella sua essenzialità. Al perché le nostre vite siano percorse e caratterizzate dal malcontento e dalla paura le risposte di Pasolini e di Guareschi offrono spunti diametralmente diversi.
Ma l’analisi e la lettura di Pasolini, così puntuale e sensibile all’attimo, si pone oltre il contesto immediato in una riflessione che lo ripropone come simbolico umano e troppo umano. Pasolini individua nella vita e negli insegnamenti di Socrate un riferimento da percorrere e non è incauto ritrovare la rabbia di Socrate in quel gesto estremo e definitivo che è stato bere la cicuta. Pasolini come Socrate dunque: per strade decisamente diverse ed avverse, eretici e perseguitati non solo e non tanto dai propri detrattori e nemici, ma soprattutto dai propri seguaci ed amici. Pasolini si presenta in questi 83 minuti densissimi di musica, poesia, immagini e prosa, affidate ad un poeta e ad un pittore, entrambi amici e consimili, in una disarmante, assoluta, cosmica solitudine.
La solitudine di chi sa che il significato più estremo ed efficace della sua eretica coerenza è quello di essere mangiato. Solo in questa fagocitazione quasi transustanziale la verità del suo esistere e del suo insistere può aver senso perché mangiare Pasolini significa mangiare la sua rabbia e la sua vita. Una rabbia così dignitosa, così disarmante, così tenace, così umana che non può essere definita in un gesto distruttivo. È la rabbia permanente dell’uomo che muore sì, ma crescendo e quel suo crescere determina le condizioni della sua attualità metastorica, fuori dal qui e dall’adesso, abitata da un tenerissimo sé.
L’idea però di un Pasolini che aleggia fuori dallo spazio e dal tempo è quanto mai suggestiva ed impropria. Di ciò che la sua rabbia ha testimoniato, condannato e solidarizzato, dei fatti e delle situazioni particolari e specifiche che hanno caratterizzati gli scritti, le inchieste, i documentari, le rubriche, di tutto ciò che è stata l’opera sua di uno specifico momento, rimangono echi e tracce che il tempo ha talvolta superato e travolto e scolpito. Ma del loro significato più intimo e profondo, emblematico, rimane ancora attualmente profetica l’analisi che ne fece con assoluta onestà e disarmante fierezza. Una delle parti del documentario è dedicata ai cinegiornali della Settimana Incom tutti concentrati sul suo linciaggio morale, responsabile e prodromico di quello fisico del 1975. Questi cinegiornali introducevano tutte le proiezioni dei film che al cineteatro Gerini di via Tiburtina vedevo da ragazzino dell’oratorio prima e della scuola media successivamente.
Quel fraseggio sensazionale e raramente elegante, da rotocalco frivolo e superficiale, goliardico, tranciante ad effetto per una impaginazione veloce di poche, nette battute; quelle immagini e commenti che si integravano in un estetico linguaggio ad effetto. Espressivo perché frivolo, superficiale, fast. Nessun approfondimento, nessuna introspezione, nessuna analisi. Solo una visione del mondo, un volo affannato ad infilare notizie da scadalo, da gossip. Ovviamente questa parte in cui si riportavano spunti di cinegiornale parlava di Pasolini. Pasolini “nascosto da occhiali da gerarca” è quello che più di tutto mi fa riflettere sulla profondità e la onestà dell’informazione giornalistica dell’epoca. Una volgarissima allusione, tutta maschilista e reazionaria, sulla futura proiezione del film Uccellacci ed uccellini. Allusiva, ammiccante, volgare ed offensivamente scontata per un piccolo giornalista reazionario che non aveva ancora visto il film che è del 66, ma che non poteva non scandalizzarsi ad un titolo che voleva raccontare della continua lotta tra sfruttati e sfruttatori, tra l’ingiustizia del capitalismo e la debolezza fatalistica del proletariato e ben altro ancora e che invece provocava i timori moralistici ed ipocriti dei sessuofobi.
Se Pasolini avesse voluto alludere alla sessualità o meglio all’erotismo della sessualità, non avrebbe avuto ammiccamenti da confessionale, come dimostrò più tardi, dal 1971 al 1973, con la Trilogia della vita. L’attualità di quel giornalismo oggi ancora presente e dominante è in tutto il suo pornografico cinismo: prendi un pezzetto, una porzione, decostruiscila, destrutturala e fanne realtà, da dare in pasto al guardonismo analfabeta delle masse. Insisti fino a quando la visione dialettica, complessa e contraddittoria del tutto non si riduca che a qualche sensazionale particolare. Dietro gli “occhiali da gerarca”, gli occhi attenti di Pasolini scrutano un mondo di cannibali disposti pazientemente alla sua distruzione. Non hanno fretta perché sanno che è una voce isolata ed eretica, che tra quelli che contano ha pochi amici pronti a difenderlo, a sostenerlo. E gli altri amici, quelli delle borgate e delle baraccopoli, gli intellettuali senza partito, i religiosi senza chiese, i sognatori, le poetesse allucinate e passionarie, tutti costoro non sono che il coro frustrato a testimonianza e commento della sua tragedia personale: l’eroe è solo, è stato lasciato solo ed oggi sono pochi, pochissimi che hanno il diritto di amarlo e compiangerlo.
Silvio Cinque vive a Roma dove fa il bibliotecario ("il mestiere più bello del mondo").