Le proteste degli italiani contro i despoti nel Risorgimento cominciarono con le musiche di Giuseppe Verdi, dal Nabucco al Coro dei lombardi. Dolore e libertà. Le successive, hanno ricalcato gli stessi temi sempre prevedendo il futuro: immaginavano guerre, armi, stragi e una morte, più o meno gloriosa, per la patria, per il partito, per un’idea. Insieme con l’amore e la libertà, la morte – con la violenza che le sta alla base – è la grande protagonista di quasi tutte le canzoni nazionali e politiche dei 150 anni dell’unità d’Italia.
L’«Inno di Garibaldi», scritto dal poeta Luigi Mercantini (1858) comincia: «Si scoprono le tombe, si levano i morti» i quali risorgono per combattere e tornare a morire per la libertà. Una delle ultime, se non forse l’ultima, è «Bella ciao», di un poeta e musicista ignoto il quale racconta di un giovane che svegliandosi un mattino trova «l’invasor». Combattendo per un futuro di libertà il patriota muore e chiede di essere seppellito in montagna «sotto l’ombra d’un fior».
Il ministro della difesa ha avuto di recente l’idea di avvicinare gli scolari alle armi, di fargli conoscere da vicino la vita militare. I militari, si sa, fanno la guerra. Il ministro Ignazio Benito La Russa, sa bene che sotto il fascismo fu inventata l’Opera nazionale balilla, diventata Gioventù italiana del Littorio nel periodo della Repubblica sociale italiana (1943-1945). Gli scolari venivano allevati con il culto militaresco: divise, fucili, parate, giuramenti, pronti per la guerra contro qualcuno. I balilla ebbero il loro inno, «Fischia il sasso», che inondò l’Italia per un ventennio. Dal sasso del Balilla genovese alla canzone «Vincere» in cui si gridava che i «cuori esultano, pronti a obbedir, pronti lo giurano: o vincere o morir». Infatti, morirono a milioni.
Poi si arrivò, in piena seconda guerra mondiale, a un altro genere di fischio: «Fischia il vento, urla la bufera, scarpe rotte e pur bisogna andar a conquistare la rossa primavera dove sorge il sol dell’avvenir»; e tutti si trovarono coinvolti, non solo in una battaglia contro «l’invasor», ma nella prevedibile guerra fratricida. Il rosso si presentava dopo il nero. Questi canti, letti al completo, ci illustrano i diversi periodi di questo secolo e mezzo di storia nazionale. C’è per esempio «Giovinezza», che prima di essere inno fascista con i versi dello scrittore Salvator Gotta, ebbe varie trasposizioni e, in realtà, nacque da due universitari torinesi che davano l’addio agli studi con il titolo «Commiato». Uno dei due, Nino Oxilia, sarebbe caduto in guerra, sul Piave.
Lo scrittore e giornalista napoletano Vittorio Paliotti ha intrecciato storia e inni dei nostri ultimi 150 anni, con grande bravura nel volume «L’Italia chiamò», Franco Di Mauro Editore. Si trovano i cospiratori, i monarchici, gli arditi, gli abissini, i repubblicani, i repubblichini, i democristiani (oh!, i loro tristi «Biancofior»), i socialisti, i comunisti così che, volendo, ad ogni personaggio d’importanza pubblica di oggi, si può attribuire un riferimento storico. Qualche breve esempio: «La canzone dei sommergibili», che dice: «ridendo in faccia a monna morte e al destino, colpir e seppellir ogni nemico», è stata scritta da Guglielmo Giannini l’inventore del partito dell’«Uomo qualunque». I «Battaglioni Emme» che si dichiarano «Battaglioni del Duce, battaglioni della morte creati per la vita…» sono del poeta futurista Auro d’Alba, che altrove ha scritto anche di peggio: «Il mondo sa che la camicia nera s’indossa per combattere e morir».
Per chiudere: «L’Inno dei lavoratori» (1886), che dice «O vivremo del lavoro o pugnando si morrà», è di Filippo Turati; «Monte Grappa» (1918) è del futuro quadrumviro mussoliniano Emilio De Bono, stratega della guerra in Etiopia. In «Ta-pum» (1916) si canta: «Eravamo in ventinove, solo in sette noi siam restà». Peggio delle previsioni. Molte canzoni di guerra e di cadaveri sono musicate da Mario Ruccione (Faccetta nera, La sagra di Giarabub, I sommergibili), poi tra i protagonisti del mieloso Festival di San Remo; la «Canzone strafottente», scritta da un allievo ufficiale della repubblica di Salò;, dice tra l’altro: «La signora morte fa la civetta in mezzo alla battaglia. Forza ragazzi, facciamole la corte…». L’autore è Mario Castellacci, futuro giornalista della Rai – ricorda Paliotti – e ideatore del cabaret «Il Bagaglino». Come passa il tempo.
Mario Pancera, giornalista e scrittore. Tra i suoi libri, una testimonianza diretta e affascinante su Don Mazzolari, parroco dalla parte dei contadini diseredati: “Primo Mazzolari e Adesso: 1959- 1961” ('Adesso' era il giornale che Mazzolari pubblicava). Ultimo lavoro di Pancera “Le donne di Marx”, edizioni Rubettino