“L’amore per le formule, per le sintesi riduttive di concetti diversi e opposti in schemi, cliché di facile apprendimento per menti che non sono mai andate oltre all’infanzia, menti per le quali non è mai nata una Montessori, in nessun paese ha mai trionfato come in Italia che soprattutto oggi è il terreno più fertile per coloro che vogliono degradare l’analisi. La ricerca autonoma che non ammette mai mete raggiunge che non possano essere superate, in Italia – libertà inquietudine non conformismo al bando! – se ti va bene le catacombe, l’esilio e i cliché non sono solo di oggi, trionfano da sempre”.
Quando Benedetto Croce osò dire che l’arte del Seicento non si identifica con il Barocco e che esso non era esaltazione creatrice, ma una formula concettuale e non artistica, insorse l’Italia, madre degli arcadi, i pretoriani del gongorismo ermetico sfoderarono i loro spadini. Ma che cos’è oggi un Croce davanti a menti sottili, cartesiane, come uno storico – sociologo recente detrattore di Roberto Saviano? È il ricordo di un’Italia scomparsa, non l’Italia di Emanuele Filiberto, di Lele Mora, di Marrazzo, della Trota e di Povia.
Non è certo prodotto di confusione mentale o di occasionalità la mostra “Flora Romana” nelle sale di Villa D’Este di Tivoli, curata da Francesco Solinas, un grande talento critico che ovviamente non insegna in Italia, ma a Parigi, a l’Ecole normale supérieure, scuola prestigiosa da sempre. Il terreno della “natura morta” è un terreno minato sul quale si sono avventurati pochi “kamikaze” e che ha vittime illustri da Federico Zeri a Mina Gregori. I tratti della “natura morta”, se è occasionale opera di pittori che hanno un loro stile, spesso smentiscono questo stile, vedi il lombardo Panfilo Nuvolone o il romagnolo Guido Cagnacci. Se invece è il campo specifico solo di quei pittori che si sono dedicati esclusivamente alla “natura morta”, allora siamo in piena quaresima, siamo al cimitero di Stagliano.
Ecco a Tivoli Mario dei Fiori, alias Nuzi, che è stato fino a questa mostra un’etichetta di comodo, un cestino con i più diversi rifiuti, sempre al servizio di antiquari, soprattutto romani. Ma che cosa fa il professor Solinas? Inventa un nuovo Mario dei Fiori, che è contemporaneamente il pittore che è stato e il pittore che Solinas vorrebbe fosse stato. Intanto non è un pittore barocco, non è un interprete della pittura colta a Roma nella sua epoca, è solo un artigiano abilissimo, totalmente privo di fantasia e soprattutto privo di sensualità, necrofilo perfino, ché le sue nature morte sono morte prima ancora di nascere, lui poi le imbelletta, un po’ di cipria, uno spruzzo di Malizia e un po’ di disordine. I suoi quadri sono tutti uguali, ecco la differenza con il geniale Ruoppolo che esalta l’intensità cromatica, un folle vero, uno per il quale la pittura vince sul peccato originale e sull’Inquisizione.
L’esuberanza di Mario dei Fiori è tutta finta, frigida, sterile, onanista. Non parliamo poi dell’inutilità delle figure, perfino fastidiosa; per dipingerle chiamò tutti i pittori di Roma, tutti migliori di lui, da Maratta a Ciro Ferri, da Mei a Salini, del quale viene esposto un quadro stupendo di casa Pallavicini, una nuova attribuzione che dimostra come Solinas potenzi la filologia oltre la sua aridità scientifica. La documentazione nel catalogo è ammirevole. Mario dei Fiori ebbe una allieva Laura Bernasconi, la mostra avrebbe dovuto indagare la personalità, non lo fa se non di striscio ed è male.
È una mostra da vedere? Be’, se avete una causa di divorzio in corso che vi costerà molto, se temete un avviso di reato, se scoprite che vostra figlia legge i romanzi di Alain Elkann, un pomeriggio a Villa d’Este vi farà bene e per non sembrare una mezzacalza astenetevi dall’avere sottobraccio le “Memorie di Adriano”.
Francesco Smeraldi, veneziano, pubblica poesie in Italia e a Parigi. Giuseppe Ungaretti le aveva presentate al premio Viareggio. Ha lasciato la poesia per dedicarsi all'attribuzionismo della pittura del Quattocento e del Cinquecento.