Siamo andati via di casa dieci anni fa. Abbiamo vissuto il privilegio di chi può assaggiare la propria libertà e cogliere l’occasione di studiare ciò che lo appassiona, senza la preoccupazione di doversi mantenere. Lo studente fuorisede che vive la leggerezza di un’illusione di indipendenza, garantita dal sostegno economico dei genitori.
Quel privilegio oggi è diventato il peso di chi a 29 anni dipende ancora dalla famiglia. E deve farlo. Di chi vive ancora la condizione dello studente quando vorrebbe essere indipendente davvero. Finalmente adulto. Di chi, barcamenandosi tra collaborazioni, lavoretti e stage, può dormire sonni tranquilli – e non più sogni – solo perché il 20 di ogni mese, qualunque cosa succeda, c’è l’assegno di papà. È il giogo della precarietà che rende terribilmente quotidiana l’impossibilità di fare programmi. Il lavoro che non è più un diritto regolato da un rapporto contrattuale, in cui la retribuzione ricevuta è il giusto compenso dell’attività svolta, ma assume la forma di un favore, una gentile concessione. Qualcosa per cui si deve ringraziare, con un prego che ha il sapore di un ricatto: a volte può esser meglio rinunciare al proprio spirito critico o alla rivendicazione dei propri diritti. Pegno per il rinnovo del contratto.
E scadono le collaborazioni a progetto. Ennesimi progetti, ennesime scadenze. Riprendono le faticose ricerche di un posto in cui le lauree, le specializzazioni, i master, le esperienze accumulate, possano trovare qualche applicazione. Ricerche che non promettono di esser brevi, in un periodo in cui una gestione scellerata delle risorse, congiunta alla crisi, non fa che ingrossare le file dei disoccupati. Nel frattempo, c’è chi torna ad attaccare annunci per strada per qualche ripetizione, chi accetta un posto come commessa o dietro al bancone di un bar. Esattamente quello che abbiam fatto dieci anni fa. Appena arrivati all’università.
Leggendo un articolo di Marco Travaglio sono rimasta colpita da una sua osservazione: paragonando la politica anticrisi francese con quella italiana, Travaglio evidenziava come la Francia di Sarkozy avesse deciso, in modo lungimirante, di investire nella formazione mentre l’Italia falcidiava la scuola e la ricerca, preparando il futuro ad ignoranti senza lavoro.
Credo che nel nostro Paese il problema non stia solo nella pericolosa mortificazione con cui la formazione viene colpita sistematicamente, per subordinare gli ambiti di studio e ricerca alle necessità speculative delle aziende. Questo rientra in un progetto a lungo termine che il governo si è dato per limitare lo sviluppo di “menti pensanti” e favorire la crescita degli istituti privati. Nell’immediato il nodo più grave riesiede nel marcato del lavoro, in cui non vi sono sbocchi – retribuiti, perché si è persino arrivati all’ossimoro di “lavori non retribuiti” – per la formazione. Al massimo c’è qualche passaggio asfittico.
Contratti a progetto e collaborazioni. Ed emerge il paradosso per cui, al contrario dei decenni passati, è più semplice trovare un impiego in settori a bassa professionalizzazione piuttosto che da laureati. Recentemente anche il Sole 24 ore ha dedicato articoli alla disoccupazione giovanile, evidenziando quanto sia più alta tra laureati piuttosto che tra diplomati. Ma a noi non serviva un quotidiano per capirlo: ce lo abbiamo ben impresso sulla pelle. Mi è successo tante volte, durante i colloqui, di uscire a mani vuote sentendomi dire che ero troppo qualificata. Al sistema legislativo che ha consolidato sotto il falso nome di flessibilità la precarietà, si aggiunge infatti una politica economica che taglia risorse a settori cruciali, minacciando l’estinzione di intere categorie. Meglio lasciare i tecnici, più fruibili per far profitto e possibilmente acritici, piuttosto che promuovere la cultura in senso profondo e completo: potrebbe favorire la formazione di destabilizzanti coscienze libere.
L’altro giorno ero a cena con degli amici. Nella diversità dei nostri percorsi ci accomuna la prospettiva di anni di precariato. Compensi che bastano a mala pena a coprire la spese di affitto, lavori impegnativi a cui dover affiancare attività più o meno pertinenti per riuscire a mettere insieme uno stipendio. Noi viviamo oggi e qui. Questa è la nostra giovinezza e questa l’attualità con cui ci dobbiamo confrontare. Probabilmente dobbiamo rinunciare all’idea di un lavoro fisso e di una retribuzione che da sola basti ad arrivare a fine mese. Possiamo cercare il lato positivo di questa condizione e inventarci “imprenditori di noi stessi”, affiancando una serie di attività diverse che alla fine formino l’intero. La politica però dovrebbe farsi carico di questa situazione greve e far sì che non la debbano scontare anche le prossime generazioni.
Giada Oliva, giornalista, si è occupata a lungo di Paesi in via di sviluppo e di cooperazione internazionale. Attualmente lavora nell'ambito della comunicazione politica e continua a seguire ciò che accade dall'altra parte del pianeta.