Sul riformismo è bene parlar chiaro: se in Italia, dove tutti, prima o poi, finiscono per dirsi riformisti, di riforme non v’è traccia, la colpa non è di un riformismo latitante, ma della latitanza dei riformisti (e non sto pensando a Craxi). Certo, si può essere riformatori senza essere riformisti, e viceversa. Il riformatore riforma tanto per riformare. Non ha obiettivi strategici di lungo periodo: l’importante è riformare per non tirare le cuoia e tirare a campare. Le riforme dei riformatori sono riforme finte, all’acqua di rose, da tapis roulant. Tante riforme, nessuna riforma. È evidente che nel nostro paese queste “specie” di riformatore-Gattopardo è assolutamente maggioritaria, infiltrata in tutti i partiti e ovunque decisiva.
Invece, sono, se non proprio assenti, decisamente minoritari e collocati in posizioni di assoluta impotenza, i riformisti. Se i riformatori hanno come fine solo quello della propria sopravvivenza, i riformisti hanno un fine più nobile, che è quello di garantire maggiori opportunità di vita (o di vite) a tutti i cittadini, mettendoli nelle (stesse) condizioni di perseguire ognuno le proprie aspirazioni. Il riformista vuole una società giusta, nella quale la libertà sia equamente distribuita.
Se ci guardiamo attorno, osservando soprattutto quei paesi europei meglio funzionanti del nostro, ci accorgiamo che esistono società molto più giuste, secondo molteplici criteri (economici, sociali, culturali). E le ragioni di questa diversità e di questa differenza sono fondamentalmente due. Da un lato, c’è una ragione ideale o ideologica, nel senso buono e ampio del termine. La cultura riformista non ha fatto parte e continua a non fare parte dei programmi politici dei partiti italiani. Alla Dc e al Pci mancava, per così dire, l’Abc del riformismo, che non può essersi formato, magicamente, attraverso la fusione “freddissima” degli eredi di quelle due culture politiche (democristiana e comunista) nell’amalgama mal riuscito del Pd. Nel centro-destra la situazione è leggermente migliore, ma, anche in quel contesto, i pochi istinti riformisti non durano che l’espace d’un matin, prontamente soffocati o piegati dall’esigenza di approvare supinamente leggi ad suam libertatem. La seconda ragione è strettamente legata alla prima: culture politiche di questo tipo non potevano/possono certo forgiare uomini e donne d’ispirazione riformista. E siccome le idee camminano sulle gambe degli uomini e delle donne, non dovremmo stupirci se le idee riformiste nel nostro paese hanno avuto poco successo e fatto pochissima strada.
Come si esce, dunque, da questa situazione di stallo perenne? Per prima cosa, dovremmo riconoscere che, siccome il riformismo non cala dall’alto perché ai vertici non ci sono i riformisti, l’unica opzione praticabile è quella di promuovere un sano e sapiente riformismo dal basso, “popolare” nei metodi e “radicale” nei contenuti. Dagli accordi o dagli inciuci della nostra classe politica, come sappiamo, difficilmente escono riforme vere, riforme riformiste. Considerata questa manifesta incapacità, diventa necessario, quindi, il contributo coerente e intelligente dei cittadini, con l’intenzione di spronare i politici a compiere quelle scelte che finora, per insipienza o per convenienza, non hanno saputo compiere. È finito anche il tempo, però, per un contributo limitato e una tantum dei cittadini, i quali si sono sempre limitati a suggerire piccoli interventi, circoscritti nel tempo, nello spazio e anche negli effetti. È venuto il tempo di proporre riforme radicali, che incidano al cuore del problema democratico italiano. E se il fulcro del malessere italiano è rappresentato dalla presenza di partiti scarsamente democratici e riformisti, l’intervento del riformismo popolare dovrà prevedere l’introduzione di “metodi democratici” nell’intera organizzazione dei partiti, a cominciare dalle diverse modalità di finanziamento passando per il reclutamento delle candidature. Sappiamo che, per quanto lo strumento sia, in sé, debole, gli effetti di una proposta di legge di iniziativa popolare, soprattutto nella creazione di un clima politico favorevole alle riforme, possono essere enormi e straordinari. Credo sia giunto il tempo di pensarci seriamente. Chi vuole, si faccia avanti.
Marco Valbruzzi è ricercatore presso l'Università di Bologna. Autore del libro "Primarie. Partecipazione e leadership" (Bononia University Press, 2005). Ha curato il saggio "Il partito democratico di Bersani" (Bup, 2010) insieme a Gianfranco Pasquino e Fulvio Venturino.