Veramente una volta si chiamava “tram”, come quello che vediamo ancora sferragliare nelle città sempre più magica della nostra memoria a lungo termine… Era un evento vederlo passare e prima o poi ci salivamo, ma senza fretta. Faceva rumore quasi come un treno, ma più discreto nel cigolio sottile delle rotaie, ed era verde bottiglia, con quella strana antenna che scorreva in una selva di fili elettrici. Trasmetteva fiducia nelle istituzioni, serio e e dignitoso nella sua lucida divisa anni Sessanta e il berretto con la visiera, l’autista misterioso che qualche volta si affacciava dal finestrino, ma solo per controllare che il semaforo non diventasse rosso proprio quando qualcuno si metteva a correre per ad attraversare, dall’altra parte della strada.
Era una rarità. Forse la memoria mi inganna, ma nessuno correva, nessuno attraversava col rosso, nessuno perdeva la coincidenza. C’era infatti il tram e un pugno di macchine. Di solito si andava a piedi fino alla fermata successiva, giusto per passare dal pizzicagnolo a prendere la schiacciata, prima di andare a scuola. E poi? Salivamo o non salivamo? Io me lo ricordo dal di fuori, non so perché. Come se allora un po’ lo temessi, e fosse una specie di simpatico mostro sacro da tenere a debita distanza, che strano…. Però era bello vederlo passare, ci faceva fantasticare di romantici tragitti in più essendo elettrico che non inquinava.
Poi la città impazzì e, incomprensibilmente, il tram venne abolito da un’amministrazione scriteriata che lo ritenne obsoleto, o più efficacemente sostituibile da una rete di bus urbani invadenti e inquinanti. Più selvaggiamente aumentarono le automobili , fino all’ennesima potenza, si accavallarono una sull’altra , se possibile, in un percorso infernale che non risparmiava più nemmeno il centro storico.
Come dicevo, una volta si chiamava “tram”. Già, perché ora a Firenze, dove è stato finalmente ripristinato, dopo tante polemiche e ritardi, lo chiamano tutti “tranvia” , chissà perché, forse perché per anni hanno propagandato con questo nome la strada ferrata che doveva contenerlo, tanto che oramai sono tutt’uno. E quindi: “Si prende la tranvia”, finalmente! Invece non è così semplice. Anche se il mezzo sembra più efficace ed ecologico, è un piccolo mostriciattolo che arriva in un mondo cambiato e stanco. Per riuscire a prenderlo, poi, ci vuole sempre un autobus che non passa mai. Si sale ed è un corridoio stretto tra una selva di ginocchia e occhi senza espressione: perché tanta tristezza?
Se riesci a passare e non trovi posto – quasi sempre – non sai dove aggrapparti, perché non hanno messo ancora le maniglie. E poi quel tintinnìo a intervalli, la voce meccanica e sempre uguale che annuncia le fermate… Ma, davvero, a nessuna fermata del desiderio corrisponde questa tranvia della città alienata, per parafrasare all’incontrario il famoso dramma di Tennesee Williams, in cui però la volontà di vivere, malgrado tutto, trionfava. Ma non dimentichiamo che senza sogni non si può vivere, e quando passa sul ponte tra l’Arno e le Cascine, ci ricordiamo ancora della bellezza.
Giusy Frisina insegna filosofia in un liceo classico di Firenze