Quando festeggeremo i 150 anni dell’Unità gli stranieri che sopravvivono, nel sud o in via Padova a Milano, cosa potranno festeggiare?
Ora non si parla più di razzismo, né tanto meno di mafia, nel mio lontano incorreggibile profondo sud. Tutto sembra essersi ormai normalizzato, c’è solo casualmente qualche immigrato africano in meno per le strade silenziose di questi giorni che sanno ancora di freddo, mentre sulle arance tardive si abbatte la temuta grandine di fine inverno. Ma basta ricordarsi che si può anche non essere mafiosi e risentire comunque di un’atmosfera ormai cronicizzata di illegalità, semplicemente adeguandosi, accettando, subendo, o semplicemente facendo finta di niente.… Sembra che nulla cambi, o che tutto sia cambiato perché tutto resti come prima, come diceva il celebre ultraironico Principe di Salina. Anche se tra Calabria e Sicilia non c’è ancora il Ponte, e forse non ci sarà mai, ma sembra ormai un pensiero che si fa e disfà nell’immaginazione di chi lo vuole e di chi lo osteggia, talvolta più per scelta di schieramenti che per riflessione autentica, come tutto quello che si pensa oggi in Italia, anche quando non si sa più cosa pensare. Tanto continueremo lo stesso a litigare vanamente sempre , come in un odioso ping-pong, senza riuscire mai a risolvere davvero i nostri gravi e secolari problemi.
Meglio forse consolarsi pensando che le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità , con la suggestione dei miti mai sepolti del tutto,serviranno almeno a farci sentire un po’ più Italiani del solito, al punto da auspicare che lo diventino anche gli stranieri, integrandosi perfettamente nei nostri costumi un po’ corrotti e loschi, tipici degli “Italiani brava gente”. In fondo tutti questi anni post- unitari a qualcosa ci saranno serviti no? A imparare i reciproci difetti, per esempio, oltre che naturalmente qualche qualità, come quella di saper fare ogni tanto una sana autocritica e non riuscire ad essere troppo nazionalisti (il che ci permetterebbe anche di controllare il razzismo),oltre che saper affrontare la vita con un certo disinvolto fatalismo alternato a lamentevoli preghiere-imprecazioni, come quella emblematica dei Napoletani nell’attesa del “miracolo” del sangue di San Gennaro… Come non apprezzare questa naturale disinvoltura e questa emblematica capacità di “adattamento” del popolo italiano?
Se l’Italia, malgrado il modo non da tutti apprezzato, è stata, in fin dei conti, “fatta”, si tratterebbe comunque pur sempre di fare gli “Italiani”, come disse il buon D’Azeglio. Ma forse basterebbe riuscire ad essere persone autentiche.
Su un cartello pubblicitario attaccato all’autobus ho visto scritto: Liberté – Fraternité… e poi avevano cancellato Egalité e al suo posto messo, in italiano, “Differenza”. Come dire che la differenza che ci distingue ci rende uguali, riconoscendo a tutti pari dignità nell’essere se stessi dal colore della pelle alla scelta di chi amare.
Insomma, facendo infine scelte fondate sul rispetto dell’umanità. Sarebbe bello poter dire questo di un’Italia che è stata culla del Rinascimento, prima ancora che del Risorgimento.
E allora si potrebbe ancora riprovare a idealizzare il nostro “Bel Paese”, ma possibilmente imparando intanto fare a meno delle speculazioni edilizie e ad evitare i disastri ambientali, visto che anche quelli sono solo un danno per tutta l’umanità, in nome del suo bisogno eterno di salute e bellezza.
Giusy Frisina insegna filosofia in un liceo classico di Firenze