C’era una volta … – Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno …
E’ del 1881 il Pinocchio di Collodi, una delle narrazioni fondanti dell’Italia unita, e già era anticipata l’idea delle società future che, in assenza di cultura, le persone sono ridotte a burattini manovrati dall’alto. E che succede poi se l’ordine del mondo si sovverte a vantaggio degli ignoranti? Diventerebbe il Paese dei Balocchi …
Noosfera Lucignolo di (e con) Roberto Latini vede nel Pinocchio di Collodi un piccolo manuale dell’italianità, scegliendo come punto di vista quello di Lucignolo. Lucignolo e il suo desiderio di andarsene ancora prima di capire dove, ancora prima di un qualsiasi Paese dei Balocchi. Non è in fondo questo, scrive Latini (e pensiamo pure noi), un sentire diffuso? Lucignolo è il figlio di un malessere che non si accontenta, che non si consola, che agisce inseguendo miraggi, illusioni e promesse.
Roberto/Lucignolo è solo in scena (ma sempre accompagnato da Gianluca Misiti, Max Mugnai e Federica Furlanis, che compongono la compagnia Fortebraccio Teatro), indossa la parrucca gialla di Geppetto, il suo sguardo è cieco, gli occhi coperti da lenti a contatto bianche, su di lui incombe una corda legata a cappio. Un telefono squilla senza trovare risposta. La sintassi è ridotta a pezzi, la drammaturgia a frammenti.
“Prometto, tanto non mi costa nulla e vedo che sono tutti contenti!” esclama il Lucignolo di Latini, con una sfacciataggine che deriva dalla sua ignoranza. E l’ignoranza diventa “cosa preziosa” quando la cultura viene intesa come “cosa non-preziosa”. Piuttosto che il perbenismo desolante di questa cultura, allora dice Latini, è meglio la sfacciata ignoranza di Lucignolo! Viva Lucignolo! Viva la sua svogliatezza! Non sa parlare, è impolverato, cencioso, consapevole del destino da bestia da soma che lo attende per muovere il circo del Paese dei Balocchi. Un perdente nell’ “immondo mondo, nello strazio di questo spazio.” Un calcio alla sedia e ricomincia uno spettacolo completamente diverso, il pavimento coperto d’acqua, il bambino trasformato in asino.
Tra spintoni e suoni di fanfare, ed echi di bombe, in un testo che evoca e ammicca piuttosto che dichiarare, Noosfera Lucignolo è una metafora spiazzante e potente del nostro tempo.
C’era una volta un pezzo di legno … Che vuol dire c’era una volta e non c’è più. C’era una volta un paese di M ….! Il cappio è su ognuno di noi. Siamo ancora vivi? In un Paese che coscienza non ha, la Noosfera è Lucignolo. E il Titanic ne è, forse, la conseguenza. E’ una storia di deriva, di inquietudini, di disperazione, di lacrime, di perdite e rinunce che somiglia a noi, a questo Paese, alla cultura, al teatro.
Da Noosfera Lucignolo a Noosfera Titanic, la seconda creazione vista recentemente in una sera, un po’ troppo fredda per essere estate, sul Grande Fiume, il Po, il passo è breve. Altro non sono che due parti di uno stesso movimento. Due condizioni, due modi di stare. Non c’è inizio, non c’è fine. Non ci sono partenze, né traguardi. Assistiamo a una condizione in corso, ad ‘uno stare’, ciò che cambia è il nostro modo di guardare e di ascoltare. Ma ciò che rimane in noi è la tensione di rivedere, di avere sempre qualcosa da scoprire nella visione, come se fosse impossibile afferrare il mistero in essa contenuto. Il Paese dei Balocchi è il Titanic, la nave-simbolo di tutto il Novecento sulla quale, scrive Latini, un’intera generazione dell’era contemporanea, come Lucignolo, è salita nel 1912… Prima ancora delle guerre mondiali, col Titanic sono naufragati lo spirito e l’aspirazione di un’intera civiltà. Essere attori di questo Teatro è come essere saliti sul Titanic.
Ecco che la nave affonda. E con essa tutti noi. Il nostro Io, il nostro Paese, il nostro Teatro. Ancora ritroviamo in scena il telefono, qui usato come una sorta di microfono. Da un megafono esce non la voce umana ma il suono di una nave. Un cumulo di sale. Un rimando al mare e all’aridità del paesaggio che ci circonda. Non c’è più nulla. Il deserto. Ma cos’altro serve per comunicare il senso di catastrofe, di disillusione, di decomposizione, di perdita? L’uomo è lasciato a se stesso, così l’attore che lancia e distrugge la sua sedia rossa, luogo di narrazione e zattera di salvezza. A che servono le parole? A chi rivolgerle?
Il finale di questo stare spetta a Donna Elvira/Roberto Latini, al monologo in cui la donna, chiede a Don Giovanni (anche nel celebre testo troviamo un naufragio …) di pentirsi. Il naufragio collettivo si fa anche individuale, sentimentale. Ma è anche un pezzo di gran teatro, seppellito da una risata barbara e grossolana sulle miserie umane da parte di un “uomo qualunque” che, senza capire, osserva dal fondo della scena.
È nata a Parma il 15 dicembre 1971, città nella quale tutt'ora vive. Lavora da ormai numerosi anni in ambito culturale, occupandosi prevalentemente di comunicazione e organizzazione presso istituzioni e festival teatrali nazionali.