Quando si è trattato di scegliere il nome da dare nel film all’azienda che “recita la parte” di Parmalat ho pensato: dev’essere un nome di donna. Per questo si chiama Leda, non tanto perché acronimo di Latte E Derivati Alimentari, quanto perché loro l’amavano. Loro chi? Calisto Tanzi e, forse ancor di più, i suoi manager.
Con il regista Andrea Molaioli e l’altra sceneggiatrice, Ludovica Rampoldi li abbiamo incontrati: Tonna, Del Soldato, Gorreri…tutti quanti nel nominare “la” Parmalat avevano negli occhi quella malinconia da amanti delusi. Amanti? Mariti. Gente che ha dato la vita e, dopo la separazione, è rimasto con nulla in mano, vive in un residence e di ricordi. Strane figure: manager di provincia che guidavano una multinazionale. Ragionieri che facevano conti con troppi zeri. Innamorati di un marchio che era la loro città, la loro esistenza.
Sopra di loro, Tanzi, l’uomo del titolo. Azionario, certo. Ma anche l’uomo che ha dato il titolo al film. Un magistrato milanese ci ha raccontato che, durante un interrogatorio, l’ex re del latte l’ha guardato e ha detto questa memorabile frase: “Dottore, lei che ha letto tutte le carte me ne deve dare atto…lasci perdere i quattordici milioni di debiti…ammetterà che Parmalat era un gioellino”.
“Il gioiellino” si chiama il film e questo racconta: una storia più grande dei suoi protagonisti, il limite assoluto del capitalismo italiano, non saper riconoscere la professionalità, preferirle l’affidabilità, il familismo. La storia di una grande azienda creata dalla fantasia di un uomo che l’ha poi portata alla rovina perché l’ha voluta tenere nei confini, della sua terra (scegliendo i manager tra i diplomati di Collecchio), della sua famiglia, mettendo figli e nipoti in posizioni al di sopra delle loro capacità.
Non è stato difficile scoperchiare la pentola: avevano tutti voglia di parlare, alla fine. Perfino l’austero dottor Bondi, inappuntabile nel suo completo low cost, seduto in quell’ufficio troppo fastoso che Tanzi aveva creato per sé in cui non era entrato mai. Non è stato difficile raccontare a Toni Servillo che impersona Tonna, la glacialità del suo alter ego, la sua spietatezza, la rabbia che ancora lo scuote quando pensa alle risorse aziendali deviate per allontanarsi dal core business o, addirittura, per finanziare una squadra di calcio.
Io ho trascorso la vita professionale raccontando storie, dall’America al Medio Oriente e sono finito, in miti giornate d’inverno, a Collecchio per cercare il senso di questa. Ma le storie del mondo si assomigliano, hanno matrici comuni. Che sia Enron o Parmalat, Mubarak o Berlusconi, sono gli stessi sentimenti, le stesse sensazioni che frullano nella testa degli esseri umani e li conducono prima al successo poi, inevitabilmente, alla rovina. Avidità, ottusità, incapacità di riconoscere i limiti e i torti guastano quel tanto di genio che era bastato a far fare fortuna, quel tanto di coraggio che l’aveva espansa. Arriva, sempre, il tempo dell’incoscienza. A quel punto, si paga il conto. Tanzi ha ragione, credo, su una cosa. Il sistema (le banche, la grande finanza, la politica) non lo ha presentato a tutti i tavoli, quel conto. Altri come lui avevano mangiato troppo per quel che avevano in tasca e non sono stati svergognati e cacciati dalla sala. Ma questa non è una giustificazione sufficiente. Non se il gioiellino era farlocco.
Gabriele Romagnoli, giornalista e scrittore, è stato inviato per due anni de La Stampa negli Stati Uniti. Editorialista de La Repubblica, collabora con diversi periodici e quotidiani tra cui Vanity Fair, Diario, Avvenire. È anche autore di alcune sceneggiature di fiction televisive, tra cui “Uno Bianca” e “Distretto di polizia” con Marcello Fois. Dopo aver vissuto al Cairo si è trasferito a Beirut.