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Quartiere multietnico balzato alle cronache nazionali, via Padova rivela le tensioni, ma anche le grandi risorse che accompagnano i rapidi cambiamenti. In assenza di un progetto globale, le proposte più vivaci vengono dal basso. Come una grande festa a fine maggio

Via Padova, Bronx di Milano: facciamo da soli, la speranza comincia a fine maggio

13-05-2010

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Via Padova, la strada più militarizzata di Milano, si prepara a una grande festa dedicata all’incontro tra culture. Sembra un paradosso, ma questo fatto racconta molto della «via italiana» all’integrazione. A fine mese (22-23 maggio) due giorni di concerti, dibattiti, incontri religiosi, gare sportive, visite alla scoperta di luoghi o sapori faranno da controcanto al viavai delle auto di polizia e vigili urbani, carabinieri e finanzieri (per non dimenticare i bersaglieri) che in questi ultimi mesi sono diventati il leitmotiv in questa lunga arteria di quasi quattro chilometri. «Via Padova è meglio di Milano»: lo slogan della festa è invenzione di un bambino della zona. Evento vetrina, occasione per raccontare agli abitanti di ogni provenienza e agli altri milanesi che il quartiere non esprime solo degrado e insicurezza, l’idea della festa risale a molto prima che la via finisse sotto lo sguardo dei media per alcuni recenti e gravi episodi di cronaca nera.
Gli organizzatori sperano di ripetere l’esperienza in futuro, l’evento può aiutare a trasformare il territorio. L’impresa è titanica, perché cercano di mettersi in rete in cinquanta organizzazioni, con mission assai diverse: c’è chi insegna l’italiano e chi fa teatro; chi lavora negli oratori e chi allena al centro sportivo; ci sono le associazioni di volontariato puro e le cooperative; ci sono arabi e boliviani; insegnanti, educatori, genitori. Convinti che i problemi non vadano nascosti, ma – in mancanza di un progetto di coesione sociale promosso dall’alto – si debba fare rete tra chi già lavora sul territorio. Partendo dalla strada, dal cancello del parco Trotter che si trova di fronte al luogo dove è morto, ucciso, un ragazzo egiziano il 13 febbraio. Su un lenzuolo bianco le mamme dei bambini che frequentano la scuola nel parco hanno silenziosamente detto alle persone in lutto «siamo con voi». Perché intorno ai fiori e alle candele ci si raccoglie e non ci si divide.
Sul lato opposto della strada, appesa al muro, c’è una corona di alloro ingiallita, deposta un 25 aprile piuttosto lontano. La lapide ricorda altri ragazzi uccisi, dai nazifascisti, più di sessant’anni fa, ma qualche cognome napoletano, veneto ed emiliano segnala presenze immigrate in una strada che già allora raccoglieva dialetti diversi.

PAURE ALLO SPECCHIO
Via Padova inizia a poche fermate di metropolitana dal centro della città. Come un raggio si insinua verso nord-est, in una fetta lunga e sottile di città tra un canale come il Naviglio della Martesana e un’autostrada cittadina che si chiama viale Palmanova. Nella Milano del boom industriale questa era una zona di capannoni e stabilimenti che hanno progressivamente chiuso i battenti. Le costruzioni successive sono sorte senza un disegno. Ma non è esatto immaginare il quartiere come un’anonima periferia nata all’improvviso: ci sono parchi, scuole, stazioni del metrò.
Un comitato locale, «Vivere in Zona 2», ha censito 480 esercizi commerciali, la maggior parte italiani. Poi ci sono i proprietari stranieri, qualcuno è qui anche da vent’anni. Non sembrerebbe che gli immigrati abbiano sottratto lavoro agli italiani: hanno comprato negozi chiusi e li hanno riaperti. Svolgono attività integrative e almeno per la metà hanno una clientela perlopiù straniera. Lo sa bene Carlo Bonaconsa, tra le anime di questo comitato di cittadini che, in assenza di dati ufficiali attendibili, è andato a contare i negozi uno per uno. «Sul Corriere della Sera del 27 febbraio, l’assessore Moioli parlava di 120 centri massaggi lungo la via – osserva -, un numero neppure verosimile». Già tre anni fa (16 aprile 2006), il primo quotidiano cittadino annunciava: «Le insegne in lingua italiana sono quasi sparite». Falso allarme. È vero solo in qualche tratto della via, dove accade di cogliere lo stesso profumo del tabacco speziato che avvolge i marciapiedi del Cairo quando il sole inizia a calare. Sono gli uomini che fumano il narghilè davanti a uno dei più frequentati kebab. Di fronte, il tracciato rettilineo della via svela all’orizzonte le cime ancora innevate delle Grigne, in un cortocircuito di percezioni che sorprende anche i più disposti alle contaminazioni.
Certo, l’arrivo di immigrati ha cambiato molto l’aspetto del quartiere. Chi vive qui non nasconde i problemi. L’anziana che ha vissuto tutta la vita nella casa di ringhiera, circondata da persone che conosceva, vede arrivare i nuovi immigrati che prendono il posto di chi non c’è più e lei resta l’unica a parlare italiano. C’è fatica davanti alle novità, incomprensioni nella convivenza fatta di piccole cose come la raccolta differenziata, il baccano serale. Il ricambio frequente dei visi tra i vicini o nel negozietto sotto casa sono un processo che spaventa.
«Ci voleva più attenzione alle categorie più povere tra gli italiani – osserva don Davide Caldirola, uno dei parroci della zona -. Nel cambiamento non si può dimenticare l’aspetto della reciproca paura, da una parte e dall’altra. Anche quella che prova lo straniero, che non è a casa sua, con la sua lingua e le sue consuetudini». Chiesa e oratorio sono frequentati da italiani, filippini, sudamericani, ma non solo: per una partita di basket non si chiede il certificato di battesimo. Il mercato del venerdì davanti alla chiesa è sempre animato. Rispecchia le mille provenienze e sembra impossibile trovare due banchi di fila con venditori nati nello stesso Paese. Un ragazzo scherza sulla bontà della sua uva «egiziana», che certo non cresce in primavera, una donna indiana ci aiuta nella ricerca di un particolare uovo di Pasqua. Ma non basta fermarsi alla serenità di una mattinata primaverile: don Davide incontra le povertà, percepisce più di altri i timori. «Spesso i problemi nascono dove nelle case c’è la dinamica del dormitorio: ci vorrebbe qualche famiglia in più e qualche “accampamento” in meno, nel senso di luoghi con tante persone, con o senza i documenti in regola, che vivono in un monolocale o bilocale e sono spesso in strada. Dove ci sono le famiglie non c’è nessun interesse a smobilitare, ma, anzi, a far crescere i figli. La politica del ricongiungimento famigliare è quella giusta». Del resto, asili, scuole, parrocchie sono già multietniche.
«Ci vuole tempo – aggiunge – e manca la pazienza di vedere la generazione che cresce in Italia, perché non parlerà né singalese, né filippino, né spagnolo». La signora Rosa, nel vecchio cortile di casa dice che oggi i ragazzini la chiamano zia, ma quarant’anni fa, appena arrivata dal Sud, era lei a parlare solo il dialetto calabrese. «Se uno non mi avesse aiutato dandomi un lavoro e insegnato un po’ di italiano, non so se me la sarei cavata. Ero nella situazione di questi che vengono a chiedere in prestito lo zucchero oppure a farsi leggere una bolletta».

TROTTER, INTUIZIONE D’ALTRI TEMPI
Uno dei luoghi della festa di maggio è il parco Trotter, un’isola di una decina di ettari di verde che è anche cittadella per l’infanzia e laboratorio di continue iniziative. Ottant’anni fa la città di Milano aveva trasformato un luogo di corse ippiche in una scuola all’aperto per bambini gracili. Oltre un centinaio di essi era ospitato nel convitto, la costruzione più grande del complesso. Oggi gli alberi che tornano a germogliare nascondono questo edificio in rovina, per il cui recupero è stato fatto anche uno studio del Politecnico e da anni sono stanziati fondi che restano bloccati. Anche altre strutture sono abbandonate, alcune invece rivivono grazie all’impegno della scuola e delle associazioni di genitori e amici del parco: un piccolo teatro, il prestito libri, un giardino comunitario, perfino un farfallario.
Le scuole pubbliche, chiamate ancora «Casa del sole», sono nei padiglioni anni Venti, e contano quasi un migliaio di studenti, per metà di origine straniera. Del resto, quasi un terzo della popolazione del quartiere ha meno di 25 anni, percentuale ormai rara in Italia. Significa che sono molte le famiglie di origine straniera stabilmente insediate. Le classi delle elementari e delle medie sono quelle più «variopinte», anche con otto figli di immigrati su dieci alunni. Ma la soglia del 30% di «stranieri», voluta dal ministro Gelmini, non si applica perché si riferisce a chi non conosce abbastanza bene l’italiano mentre qui, tra nati in Italia e alunni iscritti da diversi anni, il problema della lingua (importante tra gli adulti) alla fine è marginale.
È sempre più difficile mantenere aperti nei pomeriggi gli spazi legati alla scuola: mancano i fondi e il personale. I mediatori culturali sono sempre meno, qualche anno fa erano cinque, oggi ne è rimasto uno. «La gamma dei bisogni è ampia, ma è ampia anche la gamma delle risorse che le persone potrebbero offrire», osserva Luisa Dell’Acqua, educatrice del Comin. Questa cooperativa sociale da trent’anni si occupa di minori nel quartiere e ha sviluppato vari progetti, tra cui l’accompagnamento di alcune famiglie, anche straniere, che accolgono bambini in affido. «Ho incontrato stranieri che si fanno molti meno problemi degli italiani – spiega Luisa -. Si tratta di persone che vogliono fare parte di questa società: un bel segno di integrazione».
Viene da chiedersi se siano stati fatti studi pubblici, se siano state valutate le caratteristiche della zona, gli elementi di valore, oltre alle difficoltà e i disagi. «Per le sue caratteristiche, questo potrebbe diventare un quartiere di coesione e sperimentazione sociale». Ha lo sguardo della persona saggia, Carlo Bonaconsa, che ha visto negli anni con i propri occhi tante trasformazioni. Racconta il lavoro di conoscenza fatto da alcuni cittadini sul territorio, dandosi obiettivi concreti, in particolare riguardo ai parchi e alle scuole. «Anche se esiste una pluralità di etnie, non sono sorti grandi conflitti. Ci sono chiese, associazioni che possono diventare punti di forza. C’è un insieme di risorse, anche in previsione dell’Expo 2015. È necessario valorizzare tutto questo, ma ci vuole un progetto».

VOGLIA DI SCERIFFI
Già, il progetto. Per il momento la risposta va in direzione della sicurezza. Il sindaco Moratti ha firmato in marzo due ordinanze. La prima obbliga i proprietari degli alloggi ad autocertificare i dati di ogni affitto, gli affittuari a dichiarare il numero di inquilini e gli amministratori a segnalare irregolarità. Altrimenti scattano le multe. In realtà, è ancora in vigore la legge n. 191 del 1978, pensata in epoca di terrorismo e che prevede di segnalare alle forze di pubblica sicurezza gli occupanti di un’abitazione. Ma evidentemente non viene applicata.
La questione degli alloggi in alcuni tratti di via Padova a massima concentrazione di nuovi arrivati è al centro delle tensioni odierne, come nei decenni passati quando c’erano le stesse problematiche di sovraffollamento di gente mediamente povera.
Oggi ci sono proprietari sia italiani sia stranieri che subaffittano in nero piccoli spazi a nuovi immigrati, spesso senza documenti in regola. In alcune piccole vie laterali la situazione è arrivata al punto di essere fuori controllo: non si sono visti vigili o poliziotti di prossimità, geometri del Comune, operatori sociali. Molti stranieri hanno acquistato case che venivano vendute a prezzi bassi, banche hanno concesso mutui convenienti. Chi ha avuto i titoli di proprietà spesso ha pagato le rate grazie ad affitti da sfruttamento. Senza troppi controlli e manutenzioni degli stabili. Alla fine ci rimettono i più deboli, non importa se immigrati e italiani.
La seconda ordinanza prevede che dal 25 marzo fino alla fine di luglio molti esercizi chiudano in anticipo: phone-centre alle 22, kebab, bar e ristoranti due ore dopo. A mezzanotte cala il silenzio, le presenze si fanno più rarefatte, nonostante le speranze di qualcuno di fare della zona una East End milanese. Ma a Brick Lane, dove il bengalese è più diffuso dell’inglese, i locali chiudono più tardi che in altre zone di Londra e c’è meno microcriminalità. I gestori, italiani e stranieri, hanno espresso il loro scontento: prima dello scadere dell’ordinanza, qualcuno potrebbe avere già chiuso i battenti per fallimento. Al Ligera, enoteca e centro culturale ispirato agli anni Settanta, hanno cercato di dare voce alla protesta ricordando che così si bloccano i luoghi di socializzazione: sono stati messi a tacere con multe salate.
Ma c’è qualcosa di più inquietante nell’azione di sorveglianza. Le persone coinvolte non ne parlano volentieri e lo fanno solo dietro la garanzia dell’anonimato. La richiesta di «espulsioni casa per casa» venuta dal leghista Matteo Salvini, capogruppo al Comune di Milano, dopo i fatti tragici di febbraio, era stata sconfessata anche dai vertici del governo. Ma i controlli si stanno effettuando, con modalità che ricalcano le catture di terroristi e spacciatori, con l’obiettivo di allontanare gli occupanti senza documenti da soffitte e monolocali. Una mattina alle sei in una sola operazione sono stati riempiti tre cellulari. Si fanno perquisizioni senza mandato e si coinvolgono persone che non c’entrano nulla.
Immigrati spariscono e riemergono: non hanno voce e non possono denunciare eventuali soprusi, come quando restano vittime delle truffe delle regolarizzazioni, ritrovandosi senza soldi né documenti. Una madre nordafricana racconta del figlio portato a fare un controllo e tornato dodici ore dopo, senza avere avuto la possibilità di informare la famiglia. Chi è a contatto più diretto con i «ricercati» – scuole di italiano, sindacati, centri di ascolto -, raccoglie le testimonianze che hanno portato a un’interrogazione parlamentare e a una manifestazione di protesta il 29 aprile. Nessuno straniero si sente al sicuro, anche chi non vive alla giornata, ma sta solo aspettando di rinnovare i permessi e magari ha i figli a scuola. Come Samira che ha mandato suo figlio da parenti, non si fida a tenerlo qui, anche se frequenta la scuola del Trotter.

LA FATICA DELL’ARMONIA
Nel giro di qualche mese il Comune pensa di poter avere un quadro preciso della realtà del territorio, anche se sarà una realtà modificata perché chi era fuori regola se ne sarà andato. Al parco, un egiziano racconta: «Molti stranieri ora preferiscono evitare Via Padova per evitare di essere fermati in continuazione». Qualche vistoso calo negli iscritti alle scuole di italiano lo conferma. Creare paura dà risultati, ma non risolve i problemi di fondo. Quanto può durare questa militarizzazione? Forse non a lungo, se non altro per questione di costi, ma qualche traccia resterà.
I problemi di alloggi sovraffollati, della ghettizzazione delle persone, della mancanza di mediatori culturali sono seri, riguardano anche altre aree di Milano e andrebbero affrontati a livello di città, anziché prendere di mira solo una via. Servirebbe un mix di interventi urbanistici e di recupero territoriale, cultura, dialogo e partecipazione, cercando la trasversalità nel coinvolgere persone di età diverse e lingue diverse in processi che si consolidano. Sapendo che il rischio che esplodano episodi violenti non può essere mai eliminato del tutto.
«Mi preoccupano soprattutto le contrapposizioni inutili e le analisi superficiali – aggiunge don Davide -: una che identifica lo straniero con il delinquente, l’altra che non tiene conto che l’accoglienza ha bisogno di alcune coordinate forti, altrimenti non è più tale. Tutti dovrebbero essere interessati sia alla sicurezza sia a una coscienza che elimina ogni forma di razzismo».
Il percorso per gestire la trasformazione di un quartiere (e di un Paese) multietnico prevede un lavoro impegnativo come le prove di musica. «Via Padova è musica», suggerisce Massimo Latronico, che dirige l’Orchestra che porta il nome della via. Questo gruppo di musicisti originari di una decina di Paesi è diventato uno dei simboli del quartiere. Nel videoclip della canzone Tunjà la musica è interrotta dalle forze dell’ordine che fanno sgomberare i giardinetti dove suona la band. Quasi un brutto presagio.

LA PIÙ GRANDE ASSOCIAZIONE DELLA VIA

Fondata nel 1993, la Casa della Cultura islamica (Cci) è la più grande tra le associazioni di via Padova. È punto di riferimento per i musulmani del quartiere, non solo di lingua araba, ma anche di altri Paesi a maggioranza islamica, asiatici o africani. Alla preghiera del venerdì arriva a radunare quasi tremila fedeli, collocati in diverse strutture in affitto, perché le autorizzazioni per costruire una moschea non sono mai state concesse, anche se il terreno è stato acquistato e la vertenza resta aperta. Intanto la preghiera del venerdì si svolge in spazi affittati un paio d’ore, ad esempio palestre, ma con spese annue che superano i 50mila euro. Quando il venerdì coincide con una festività italiana e non è possibile avere accesso a questi locali, ci pensa la vicina parrocchia di san Giovanni Crisostomo a dare ospitalità a chi prega, nel campo dell’oratorio.
Asfa Mahmoud è il presidente della Cci. Architetto di origini giordane, vive a Milano da quasi trent’anni e da tempo è cittadino italiano.

Come valuta la situazione del quartiere in questo momento?
Purtroppo la via è stata invasa dalle forze dell’ordine. Siamo d’accordo sulla necessità di garantire la sicurezza, ma ciò non basta per risolvere i problemi. Bisogna anche investire nel sociale, nei progetti per l’integrazione. Sono stato contento quando le associazioni sono state convocate dal sindaco per parlare dei problemi, ma poi tutto si è fermato lì. Abbiamo visto l’intervento per la sicurezza, ma non si è fatto un passo avanti. Questo tipo di intervento è abbastanza pesante e la gente è impaurita.

Su quali progetti alternativi lavorate?
Serve creare spazi, coinvolgere i giovani, con proposte diverse. Come Cci facciamo un lavoro educativo e sociale, di accompagnamento e orientamento, per chi è arrivato da poco e deve conoscere regole del Paese. Diamo informazioni sulle norme che regolano gli affitti e il mercato del lavoro. Offriamo corsi di italiano. Un progetto importante si svolge il mercoledì e si rivolge specificamente alle madri di ragazzi nati e cresciuti qui. Sono le mamme delle nuove generazioni di italiani. È importante facilitare la loro vita, fornire indicazioni. Queste mamme sono poi veicolo di questa formazione nelle case. Tutto questo serve a facilitare l’integrazione. Non abbiamo mai avuto un centesimo dal Comune, tutto si basa sul lavoro volontario.

L’associazione è aperta anche a musulmani non di lingua araba o ai non musulmani?
Tutti vengono da noi, anche musulmani di Paesi non arabi, pachistani, senegalesi, ecc. Il sermone è tenuto in arabo, ma anche in italiano, perché questa è la lingua comune a tutti. E poi ci fanno visita molte scuole italiane: circa cinquanta all’anno, dalle elementari alle superiori, per non parlare degli universitari. Organizziamo incontri e dibattiti, discutiamo di cultura, religione, integrazione, sia con studenti di Milano sia della provincia. Così siamo diventati un riferimento per tutta la città.

Siete anche una delle tante realtà che promuovono la festa di fine maggio.
Partecipiamo con due iniziative: un incontro dedicato alla figura di Abramo, in collaborazione con una delle parrocchie. E, insieme al Teatro Officina, organizziamo un’esibizione teatrale dei nostri giovani che hanno seguito un corso di recitazione.

[L’articolo di Francesco Pistocchini è apparso su “Popoli”, rivista internazionale dei Gesuiti di Milano]

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