Norma Huidobro, Il luogo perduto, trad. Maria Cristina Secci, Nottetempo, Roma, 2009, pp. 246, € 16.50
Marita è dura come la pietra, come la terra in cui vive con sua nonna, al nord dell’Argentina, gestendo una tavola calda in cui la narratrice colloca un solo avventore, lo schizzinoso, maniaco, paziente Ferroni, un porteño (un abitante di Buenos Aires) che arriva in questo luogo sperduto –è questa la traduzione del titolo che avrei preferito- per avere notizie di una giovane che ha fatto perdere le sue tracce e che è originaria della sperduta Villa del Carmen. Marita vive con una nonna più dura di lei, spietata con la sua stessa figlia, scacciata di casa e allontanata dalla sua bambina che sarebbe cresciuta in questo mondo senza amore se non fosse stato per la sua amicizia con Matilde, la giovane desaparecida, che anche dopo essersi trasferita nella capitale, mantiene una affettuosa, sincera, calda corrispondenza con Marita. C’è un altro, importante personaggio in questo panorama di assenze, ed è la vecchia india, Natividad Ugarte, deus ex machina di tutta la drammatica storia di Marita. E’ lei che conserva la memoria dei fatti che hanno portato la mamma della protagonista ad abbandonare sua figlia, è lei che conserva gli antichi segreti delle erbe del luogo, delle pietanze e delle bevande tradizionali, è a lei che si rivolge la giovane per poter seppellire Loba, il cane con cui è cresciuta e che la nonna ha voluto eliminare. In cambio Marita legge alla vecchia india analfabeta le lettere del figlio, anche lui lontano da quel luogo sperduto per rifarsi una vita a Buenos Aires.
Il maniacale Ferroni, ossessionato dalla pulizia delle sue scarpe, dal caldo e dalla sporcizia, è un ispettore mandato a Villa del Carmen sulle orme di Matilde il cui compagno sindacalista deve cadere nella rete repressiva messa su dalla giunta militare. Sappiamo così che il tempo della storia è quello terribile che va dal 1976 al 1983, quando la strategia del terrore ha raggiunto anche i luoghi più sperduti della vasta geografia argentina. E sappiamo pure che il quieto Ferroni è proprio uno di quei tanti torturatori che hanno reso reali i più neri propositi della giunta militare.
Il romanzo di Norma Huidobro ha, fra i suoi tanti meriti, quello di aver disegnato la figura del torturatore nella sua miseria e piccolezza quotidiana; costretto ad attendere l’arrivo dell’ultima lettera di Matilde dalla ferma decisione di Marita di non consegnare le altre lettere, Ferroni cerca di ingannare il tempo in un luogo dove, a parte i personaggi di cui ho detto, nessun altro abitante popola strade e taverne. Solo con le sue ossessioni, è la drammatica storia della sua infanzia che comincia a farsi spazio nella memoria blindata del torturatore per professione, una storia di violenza e di morte cancellata dalla sua coscienza, sostituita da una tabula rasa sulla quale è possibile cominciare un’altra storia. Anche nel suo orrendo mestiere è così che procede Ferroni: non ammette che gli vengano portati corpi insanguinati: lui opera solo se il corpo su cui dovrà esercitare la sua spietata violenza, è scrupolosamente nettato dal sangue e purificato dall’acqua.
La narrazione si dipana nei tempi lenti dell’attesa della lettera, nel caldo delle strade, nel fresco dell’ombra, nel sordo risentimento che separa la nonna dalla nipote, nei flash che illuminano il tragico patio dove si è svolta l’oscura tragedia della famiglia di Ferroni, nella testarda decisione di Marita di difendere le lettere di Matilde dallo sguardo del porteño in agguato come un ragno al centro della sua tela. L’arrivo della lettera fa precipitare gli eventi riunendo, nella campagna spopolata e sotto un sole implacabile, Marita, Ferroni e Natividad in un crescendo drammatico che culmina con lo stupro della giovane da parte di un Ferroni ormai non altro che una bestia arrabbiata che non resta che abbattere. Nell’anticlimax finale, le due donne, quella giovane e quella antica, si fanno terra nella terra in quel remoto luogo sperduto.
L’argentina Norma Huidobro insegna letteratura ed è autrice di vari titoli di letteratura per ragazzi e di polizieschi. Con Il luogo perduto rende il suo tributo, originale e tagliente, alla memoria degli anni terribili e senza perdono del regime dei Colonnelli.
Alessandra Riccio ha insegnato letterature spagnole e ispanoamericane all’Università degli Studi di Napoli –L’Orientale. E’ autrice di saggi di critica letteraria su autori come Cortázar, Victoria Ocampo, Carpentier, Lezama Lima, María Zambrano. Ha tradotto numerosi autori fra i quali Ernesto Guevara, Senel Paz, Lisandro Otero.E' stata corrispondente a Cuba per l'Unità dal 1989 al 1992. Collabora a numerosi giornali e riviste italiani e stranieri e dirige insieme a Gianni Minà la rivista “Latinoamerica”. E’ tra le fondatrici della Società Italiana delle Letterate.