Filippo Senatore, Pandosia, Piero Manni editore
Anche se non vi è certezza, numerosi studiosi ritengono che Pandosia, mitica località del passato, sia la progenitrice dell’attuale Castrolibero. E a Castrolibero, dove abitano i suoi genitori, si reca nei suoi rari ritorni a casa Filippo Senatore, che è nato nel centro storico di Cosenza ma da molti anni vive a Milano. Con questo libro approda a Piero Manni, editore piccolo ma raffinato e intorno al quale nel tempo si sono radunati i migliori interpreti della poesia sperimentale in Italia.
Poeta colto e appassionato viaggiatore, come già nelle sue precedenti prove poetiche qui conferma una insistita predilezione per classicismi, vetustà e arcaismi. Sì che viene da chiedersi cosa motiva questo incessante rifugiarsi nel passato. Se si tratta di un timido pudore nel parlare di sé, nell’aprirsi al mondo, che lo induca a deviare l’attenzione verso lidi più asettici e sicuri. O se invece egli non cerchi di profondersi nell’azione temeraria di rintracciare una continuità fra quel mitico passato e il tempo presente, sì che esso doni magicamente alle nostre miserie attuali pienezza di senso e significazione. Ma la cesura è avvenuta, l’abisso si è schiuso a noi nella sua ineluttabile consistenza e non si può non tenerne conto. Così la poesia di Senatore, col suo rifugiarsi in ostentati e letterari giardini di Eden, a volte suona appesantita e manieristica: “Incarnato viso a tratti eburneo./ Arrotare il selciato rauco/ fiordalisi dell’oblio./ Glauco è il vespro/ come parole d’amanti,/ cupo il vento di Borea”. Altre volte trova soluzioni felici e sorprendenti: “Varcarono la vita proiettando/ nel cielo progetti di stelle”. E tuttavia si fa preferire quando, più coraggiosamente, abbandona la rassicurante letteratura e si inerpica verso più misteriosi e incerti territori, in cui più pericolosa ma autentica, come un dono liberatorio da cui ripartire, è la vertigine della grazia: “La lunga strada/ di sferraglianti strappi nel cuore/ che le vicissitudini ci immersero/ fino a straziarci/ di un male antico,/ che ad ogni interrogativo sfugge/ e la notte non dà sollievo/ alle nostre contemplazioni celesti”.
È del poeta il… mezzo la meraviglia. Verrebbe da parafrasare il secentesco Giambattista Marino, quando si legge – nella prefazione di F. Walter Lupi a Pandosia – che “Filippo Senatore, che non è un poeta a tempo pieno, coltiva da anni una qualità essenziale per gli scrittori di ogni lingua e latitudine”: la capacità, appunto, “di guardare alle cose con meraviglia”.
Pubblicista, archivista bibliotecario al Corriere della Sera, Senatore è uomo del Sud prestato alla metropoli; integrato (basti pensare ai pomeriggi organizzati con gli amici intellettuali milanesi al Portnoy), ma non dimentico (ed ecco il rimando, nel titolo, alla città della Magna Grecia confederata con Crotone). Anche le sue liriche, così, sanno immergersi nei miti e nei riferimenti colti e, insieme, divenire una “Rosea” in memoria di Candido Cannavò. Possono recare lo stigma dei classici e, insieme, tenere lo sguardo sull’oggi. Ne è segno il ricavato dei diritti d’autore che sarà devoluto ai terremotati d’Abruzzo.