Per capire se un paese ha il fiato corto, il giornalista che arriva da lontano deve consultare gli annunci economici. È un termometro che spiega tante cose. In Bolivia – per esempio – si offrono a “buon prezzo” i numeri del telefono di un certo quartiere, non l’apparecchio. Perché i cavi restano le ragnatele di un tempo perduto, linee fragili, arrivano dove arrivano e il numero diventa un tesoro. Dall’altra parte del mondo sfoglio l’elenco dell’hotel Marco Polo di Alma Ata, capitale storica del Kazakistan, capitale fino quando Narzabaev, per trent’anni primo segretario del partito comunista e padrone del paradiso del petrolio in un posto più largo dell’Europa, diventa presidente liberista e sposta governo e parlamento ad Astana, lontana dalla Cina, al centro del paese.
Il potere assoluto di Narzabaev continua, cambia solo bandiera: dalla falce e martello al capitalismo selvaggio. Ma Alma Ata è ancora la capitale degli affari. E le ambasciate mantengono rappresentanze robuste. Natascia non ha gli occhi lunghi dei kazachi, ma il casco biondo dei russi fino a ieri padroni; Natascia, violinista nell’orchestra di stato e segretaria all’ambasciata italiana, dà una mano a tradurre i giornali e un mattino sorride sull’annuncio che ha l’aria di uno scherzo: il signor Viktor Alexeyevich Lenin vende la casa “di proprietà, con giardino e piccolo orto”.
Ci guardiamo, uno scherzo. Lenin non è un cognome, solo una maschera, nome di battaglia dietro al quale si era nascosto Vladimir Illic Ulianov che la polizia dello zar aveva tradotto in questa Siberia nel 1897. Veniva da Lena. La città prende il nome dal fiume che l’attraversa. Lena vuol dire “pazienza”. E Vladimir Illic, ormai Lenin, ama indossare il simbolo della placidità nelle file ancora segrete della rivoluzione agitate dalle mani pesanti di Stalin. Disegnava il futuro socialista negli anni del marxismo diplomatico. Insomma, nessun russo può chiamarsi Lenin, pseudonimo che l’anagrafe ignora e per sempre imbalsamato nella memoria.
Chi sarà questo matto? vuol sapere Natascia. Fingendo di voler comprare la casa chiedo l’indirizzo alla redazione di Caravan (Carovane), giornale che lo ha pubblicato. È una specie di Corriere della Sera del Kazakistan, l’ultimo foglio non governativo nel sultanato del presidente Nazarbaev. Editore ebreo che non deve ringraziare nessuno. Mentre ogni quotidiano o rivista, tutte le radio, tutte le tv obbediscono al presidente come chierichetti, Caravan gli fa le pulci con incredibile successo.
Accompagna all’editoria un’agenzia matrimoniale e un’impresa immobiliare. Appena Natascia spiega all’impiegato che sono italiano e che non voglio comprare la casa messa in vendita dal signor Lenin, ma solo capire con quale coraggio si è frivolamente nascosto sotto il nome del padre della patria, l’impiegato scivola via: meglio parlare col direttore. Ride Nicolai Duktin dietro la scrivania con tanti bottoni: “Quando Viktor Alexeyevich Lenin ha chiesto di essere assunto a Caravan con la qualifica di muratore-stuccatore, ho deciso di incontrarlo e studiarne i documenti. Chiedeva un posto da niente: possibile che un Lenin fosse scivolato tanto in basso? L’ironia continua, ma poi la storia diventa seria. Arriva un tipo sui 50, affilato, barbetta ritagliata sulla barba delle statue gigantesche che fino a vent’anni fa ossessionavano Alma Ata. Il direttore ascolta la storia di una famiglia senza fortuna. Il fotografo Pigi Cipelli vuole assolutamente incontrare il pronipote di Lenin, ma oggi Viktor non c’è: “Sette giorni di ferie per mostrare la casa a chi vuol comprare. Ecco l’indirizzo”.
Non è una dacia, né il villino verde dei piccoli funzionari dell’ex partito. Attorno alla capitale degli affari si aprono strade sterrate. Nessuna differenza con le favelas del nostro mondo. Corridoi di lamiere arrugginite. Oltre le lamiere, il fumo di case che non sono proprio case: accampamenti di vecchi mattoni. Nel cortile di Viktor bric-brac dei recuperi da discarica. Stringono il passaggio in un cunicolo a ostacoli. Frigorifero senza motore trasformato in dispensa. Armadio sgangherato dove covano le galline. Secchi ovunque perché i rubinetti sono asciutti e l’acqua arriva dalla fontana all’angolo della strada.
Dietro la baracca di Viktor, la baracca dei figli, Vladimir e Alexsander, meccanico ed idraulico. E poi bambini che scivolano fra le risate nel fango del primo disgelo. Un tappeto in disuso steso su un filo segna la privacy che separa le famiglie. Viktor e la madre dormono nella stessa camera che è anche sala da pranzo e biblioteca. Sul tavolo è rimasta l’ultima fetta del dolce della Pasqua ortodossa. Sul fuoco bolle il samovar. Vagamente Viktor ricorda il padre del socialismo: taglio di capelli, naso e il berretto con visiera che i ragazzi del ’68 portavano in ogni piazza; stessa sciarpa rossa stretta al collo. Si traveste come il prozio al quale ha aggrappato il cognome nella speranza di diventare ragazzo di regime. Ma la giovinezza è passata e il regime non c’è più.
“Parla con mia madre. Sto preparando la valigia. Stasera parto per Astana. Ti dico dove possiamo incontraci e discutere finche vuoi. Adesso non ho tempo”.
Nazdena Ivanova ha settant’anni, minuta, occhi chiari: é lei la nipote di un cugino di Lenin. I cugini Ulianov abitavano nella stessa strada. Ispettore scolastico il padre di Vladimir Lenin, devoto allo zar e lo zar lo ha ricompensato con proprietà, titolo nobiliare e decine di anime morte, contadini senza nome. Anche l’altro cugino, nonno di Nazdena, se la cavava bene: negozio e officina idraulica. Ma era Lenin. l’intellettuale inquieto a fare da precettore al bisnonno di Viktor. Discendenti, ma non proprio stretti, come mai signora ha chiesto di attribuire alla famiglia lo pseudonimo del prozio ? Nel ‘59 era ancora giovane. La guerra l’aveva trascinata lontano da casa. Pensava ad un futuro più morbido della vita dura a Novosibirsk. Conosceva ancora qualcuno nella città natale. Scrive: “ti ricordi di mio padre e di mio nonno ? Sai bene a quale famiglia appartengo…”. Sebbene i documenti siano scomparsi durante l’avanza tedesca, il comitato di sicurezza di Uljanovsk ( Lena ribattezzata in onore di Lenin ) conferma la discendenza. Nazdena manda la domanda a Mosca, i funzionari di Kruscev l’accolgono. Finalmente può firmarsi Lenin. Lei, i figli, i futuri nipoti. Si illude e confida ai ragazzi: “Adesso siamo a posto”.
In taxi accompagno Viktor all’aeroporto. Lungo la strada, abbandonate nelle discariche, galleggiano enormi statue di bronzo: Lenin col dito alzato. “Che vergogna”, si arrabbia Viktor. Fa segno alla statua più grande: “Era nella piazza maggiore fino a tre anni fa”. Pigi Capelli lo obbliga a mettersi in posa col dito alzato, gnomo sotto il gigante prozio. La somiglianza diventa impressionante. Ma nel vederlo accanto alla statua- montagna che il quartiere popolare un bel mattino si è trovato a sopportare, le signore kazake scendono nel prato inviperite: “Non ne possiamo più di Lenin. Troppi ricordi amari: russi padroni. E monumenti che deformano il profilo dolce della città orientale: “un insulto che fa ombra alle nostre case>. Viktor non si scompone: “Adesso basta”, soffia a Natascia che traduce a Pigi: “Non voglio perdere l’aereo”.
Il giorno dopo facciamo colazione ad Astana nel ristorante del quale mi ha scritto il nome sul quaderno. Racconta di partecipare ad una riunione del partito comunista di Mosca: cerca nostalgici nel Kazakistan e Viktor è l’erede da non perdere. Loro hanno pagato l’aereo.
Nella primavera di questa Siberia del sud, Astana galleggia nell’acqua. D’inverno la neve è un assedio: quel 30 sotto zero che diventa ghiaccio. Fino a dieci anni fa si chiamava Akmola, vuol dire tomba bianca, miniere e gulag raccontati dai sepolti dentro dagli zar e dal Cremino di Stalin: Dostoevsky, Solgenicy, tanti. Grattacieli mignon increspano la linea noiosa della steppa. I cubi grigi dei gulag sono ufficialmente cancellati, abbattuti per far posto al vetro cemento dei nuovi palazzi: crescono coi piedi nel petrolio. Ma le lugubri costruzioni del passato prossimo sopravvivono nelle periferie.
Dopo aver mangiato qualcosa Viktor mi accompagna nelle stanze dove dorme, ospite del partito che verrà, in fondo al viale delle parate, verso la periferia. Mancando il tempo per distruggere le malinconie del regime, impacchettano provvisoriamente i ruderi sotto facciate che ricordano Parigi. Veli di plastica: finto marmo, finti balconi, finte verande di caffè. Un passo dentro al portone è un passo lungo un secolo. Scale buie, un gradino si uno no. L’umidità stacca l’intonaco scoprendo crepe da terremoto. Famiglie in coabitazione. I discendenti dei deportati non possono nemmeno aprire le finestre: le scene del teatro dell’opulenza non lo permettono. Soffocati dentro. Deve essere l’abitudine a diffidare di ogni ombra, adesso che siamo soli Viktor si rilassa e parla con la felicità di chi vuol raccontare le cose che al ristorante nessuno doveva ascoltare. “Ci chiamavamo Lenin, nome che suonava, ma un onore che non dava frutti…”.
Per cercare una speranza la famiglia si trasferisce ad Alma Ata. Viktor ha vent’anni e il 22 aprile, festa del novantesimo anniversario della nascita di Lenin, il ragazzo si illude di incassare l’eredità. Prende il treno: quattro giorni dopo sbarca a Mosca. In fila nella Piazza Rossa davanti al mausoleo. Ore d’attesa, corona di fiori in mano e i fiori stanno appassendo. Le guardie d’onore lo tengono d’occhio. Nessuno può portare fiori alla mummia di Lenin. Man mano che i passi si avvicinano il sospetto cresce e quando Viktor sta per entrare nel sacrario,tre signori lo prendono sottobraccio. Ricorda con rabbia: “E’ proibito. Possono farlo solo i capi di stato”. “Sono l’ultimo discendente, mi chiamo Lenin”.
Sperava nella meraviglia: caro compagno. Invece lo guardano con occhi di ghiaccio: “Davvero ti chiami Lenin ?”. Subito su un furgone, di corsa alla Marroskaia Piscina, vuol dire silenzio dei marinai, prigione per dissidenti meno pericolosi amministrata dal Kgb. Settimane dietro le sbarre senza la voce della radio o le notizie dei giornali. Isolamento e silenzio. La burocrazia sovietica non è un fulmine. Finalmente arriva un telegramma da Ulianovsk. Viktor Lenin è proprio il suo nome. Nessun pericolo, un bravo comunista. Quando esce è un fantasma deluso dalla beffa. In quella Mosca sta brillando la stella di Breznev che si era fatto le ossa in Kazakistan, primo segretario del partito. La disavventura del ragazzo diverte il grande mandarino. Qualcosa bisogna fare, deve aver detto Breznev a chi gli sta attorno. In fondo è l’unico cittadino sovietico che si chiama Lenin. Ordina di pagare l’aereo del ritorno; riappare ad Alma Ata con qualche onore. Riceve un invito ufficiale: il segretario generale del partito kazako lo aspetta.
Ma il primo segretario non perde tempo con Viktor e la madre. Incontrano un funzionario senza nome. Non raccoglie i lamenti: “Guadagniamo poco, viviamo come bestie”. “Non me ne frega niente”, risposta che gela, ma l’ombra di Breznev non ammette l’isteria e tre giorni dopo un motociclista militare bussa alla porta con una lettera in mano. Deve passare negli uffici competenti per ritirare il titolo di proprietà di un pezzo di terra ai margini della città. E’ autorizzato a costruire una casa e a considerarla “proprietà privata “. Privilegio per pochi, a quei tempi. Proprio la casa che vuol vendere. ” Appena trovo chi compra in dollari torno in patria. Mia moglie è già a Penza, tre ore da Mosca. Sta cercando dove andremo ad abitare”. A questo punto voglio sapere quanti dollari pretende per i due buchi di Alma Ata. Viktor mi osserva con un sorriso: “Perché te lo devo dire se la casa era un trucco? Volevi solo ascoltare la mia storia”. Ci salutiamo nella luce fioca della Disneyland di cartapesta.