Ugo Riccarelli, L’angelo di Coppi, Oscar Mondadori, 2004
Una vecchia foto di mio padre – ovviamente in bianco e nero – lo ritrae appena adolescente in sella alla sua bici, lanciato lungo una discesa non asfaltata che solo a vederla mette un po’ paura. È in maniche di camicia, con un gilet di lana scuro leggermente rimborsato su un paio di calzoni grigi alla zuava. Sarà stata la metà degli anni Trenta, niente tutine multicolori in poliestere, niente bici ultraleggere, rapporti e moltipliche da far invidia alla Nasa, niente «aiutini» per sopportare meglio la fatica. A dar lena a quelle gambe magre bastava la voglia di arrivare, di averla vinta sulle ripide salite, senza bisogno di competizioni ufficiali, di gare professionistiche. Si tratta – credo – di un sentimento chiamato passione: la stessa che, dopo pochi anni e un incidente motociclistico, lo indurrà a modificare la trasmissione della bici per poter pedalare con una gamba sola, portandosi a spasso l’altra costretta alla rigidità da un intervento chirurgico in stile anni Cinquanta.
Ed è a quella foto e a quel sentimento che ho pensato leggendo il primo dei bei racconti di Ricciarelli che dà il titolo al suo delicatissimo libro, dieci brevi omaggi – tra fantasia e realtà – ad altrettanti campioni del passato che hanno fatto dello sport una ragione di vita. Non solo la schiena curva di Fausto Coppi, la falcata caparbia e leggera di Emil Zatopek o le secche sterzate di Tazio Nuvolari, fuoriclasse consacrati dalla storia; non solo il racconto delle loro prodezze, celebrate dai contemporanei e tramandate ai posteri; non solo un inno alla grandezza, alla fortuna o all’ardimento: piuttosto, la dolce e commovente condivisione delle ansie e delle paure più nascoste di questi uomini, fragili come tutti, ma sospinti controvento da un’incontenibile passione che per crescere e dare frutti ha bisogno di un lavoro contadino, fatto di pazienza e di umiltà.
Nei ricordi dell’autore – immaginifici come possono esserlo solo quelli dei bambini – il sogno si confonde col vero e appare paradossalmente più reale; così, tremuli fotogrammi di telegiornale cedono il passo a figure in carne ed ossa, delle quali percepiamo, insieme al dolore e alla fatica, la straordinaria umanità. E allora siamo lì, ai piedi del Cervino, con Jean-Antoine Carrel e il suo storico rivale Edward Whymper impegnati in una gara alla profanazione della vetta. O a Kiev nel 1942, nello stadio di una città occupata dai nazisti, sapendo che i calciatori della Start ucraina pagheranno con la vita o il lager la vittoria contro l’invasore. Oppure, a fine Ottocento, sul ring insieme a Jack Johnson, pugile sbruffone con la pelle del colore sbagliato. E poi, nell’ultimo racconto, faccia a faccia con l’uomo Pasolini e la sua incrollabile fede nel linguaggio, anche del corpo: sarà una sua raffazzonata squadretta di calcio a dare voce – e dignità – a un gruppo di ragazzini sbandati e in cerca di riscatto.
Sul treno che mi porta al lavoro mi guardo attorno e auguro ai miei assonnati compagni di viaggio la fortuna di fare del lavoro una passione, della passione il senso del nostro levarci ogni mattina al suono della sveglia.
Federica Albini, laurea in filosofia. Ha insegnato negli istituti statali. Nel 1994 lascia il mondo della scuola per avventurarsi nell’editoria. È redattrice in uno studio editoriale. Vive a Piacenza, lavora a Milano.