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L’isola dove i morti parlano

17-12-2009

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Notturno di Marisa Bafile, Studio 12

Cresce in lei la voglia di conoscere più a fondo l’isola.

Dopo una mattinata al mare, approfittando di un momento in cui Marcello torna in camera per riposare, lei scappa via dall’hotel e si immerge felice tra la gente “normale”, quella vera. Resta colpita dai colori del posto, colori naturali che si fondono con quelli artificiali, e anche dal portamento bello e altero delle donne. Si ferma a guardare un piccolo negozio che vende erbe, essenze, statue di santi e immagini per lei sconosciute. Una donna la scruta, seduta dietro un tarlato bancone di legno.

– Ha bisogno di qualcosa in particolare?

Isabel confusa ripone rapidamente una statuina che ha in mano. La donna sorride.

– Non abbia paura. Qui offriamo solo aiuto.

Isabel capisce di essere in uno di quei negozi in cui si mescolano sacro e profano per concedere una speranza a chi si illude di poter cambiare il proprio destino con un filtro o una preghiera.

– Se fosse vero…

– Tutti veniamo al mondo con la magia dentro e con la possibilità di parlare con i nostri morti protettori. Ma l’essere umano è strano, ha paura di sé stesso, ha paura dei suoi desideri e allora soffoca tutto. Quello che io preparo serve solo a far ritrovare, a chi ne ha il coraggio, la nostra parte che rimane nascosta. Vuole provare?

– No, no grazie. Io… no, no…

Isabel fa per andarsene e di nuovo la donna sorride. È un sorriso luminoso, che le si spande sul viso come una luce soffusa e rassicurante.

– Non c’è bisogno di correr via. Fuori c’è tanto caldo. Resti finché vuole.

Un invito che non sa rifiutare, ammaliata dai profumi e dai colori.

– Venezuelana?

Un sussulto, un’emozione. Essere scambiata per venezuelana come la madre la riempie di allegria ma anche di tristezza. Non è facile accettare l’idea di essere tanto vicina alla terra materna e non poterla raggiungere.

– No, mia madre era venezuelana… io sono nata in Italia.

– L’Italia è uno dei posti dove da piccola sognavo di andare. Ma il mio destino era qui.

– Non è mai uscita dall’isola?

– No, mai. Ma in fondo non mi dispiace.

– C’è tanto mondo fuori. Tante cose da vedere.

– Ho sette figli, non potevo vedere altro che loro. E ora… ora sto vedendo dentro di me.

– Sette figli?

– Si, con uomini sbagliati ma amori giusti.

– Non capisco.

– Ho vissuto l’amore profondamente, irrimediabilmente. Ho dato tutta me stessa e molto di più perchè ho dato anche i figli. Sempre con la speranza di trovare l’uomo giusto, quello che meritasse tanto amore. Non sono riuscita mai a trovarlo. Ma non importa. Peggio sarebbe stato amare a metà. Gli sbagliati erano loro, non io.

– È uno strano modo di concepire l’amore.

– Amare è dare, dare senza condizioni. Quando amo un nuovo uomo chiedo alle mie donne un consiglio. A volte a loro non piace ma sanno che non c’è altro modo di amare.

– Le sue donne?

– Sa, mia madre, mia nonna, la mia bisnonna e così via per tante generazioni…

Isabel la guarda perplessa.

– Ma scusi, sono ancora tutte vive?

La donna ride. Una risata cristallina, allegra.

– Ma no, si figuri, sono tutte morte, anche mia madre…

Isabel comincia a sentirsi a disagio. Vorrebbe alzarsi ma qualcosa, una strana attrazione verso quella donna così luminosa e solare la mantiene ferma. I profumi di erbe e ceri la inebriano immergendola in uno strano stordimento.

– Ma sono solo morte, non sono andate via. Sono qui, a volte una si allontana ma sempre qualcuna resta. La più severa è mia zia Adela, se la dimentico in un modo o nell’altro si incarica di ricordarmi quello che vuole.

Isabel la guarda sempre più stupita, incapace di risponderle.

– Lei non parla con le sue donne?

– Le morte?

– Certo, sono sempre di più le nostre donne morte che quelle vive… e poi la saggezza è diversa.

– No, non parlo.

– Ma allora si deve sentire molto sola.

– Sola? Sì, effettivamente…

– Zia Adela, quando è contenta, canta di notte una canzone francese. Sa, lei era istruita perché aveva una padrona molto strana, di quelle che non credevano nella schiavitù. Le insegnò il francese e in particolare quella canzone. Quando la sento so che zia Adela è contenta per me. Una volta io mi innamorai di uno straniero, un francese, un uomo istruito, elegante. È il padre della terza figlia. Zia Adela era così felice che cantava continuamente. Quando lui mi lasciò con la figlia in pancia e un dolore che mi spaccava dentro, zia Adela si arrabbiò tanto che bruciò l’hotel in cui alloggiava. Lui si salvò per miracolo ma perse tutto e scappò via come un coniglio spaventato.

La donna ride, ride al ricordo. Isabel si alza, sa che è tardi ma fa fatica a staccarsi da quel pezzetto di irrealtà.

– Devo andare.

– Torni se vuole, e ricordi che se impara a parlare con le sue donne si sentirà meno sola.

Sta per uscire quando la donna le fa scivolare in mano un sacchettino rosso.

– Lo porti con sé. L’aiuterà. L’universo è molto più di questo pezzetto di mondo.

Isabel lo stringe balbettando un grazie, poi un ricordo squarcia la sua mente e lo lascia cadere sul bancone. Guarda la donna quasi con terrore, sussurra: – No grazie, no grazie, – e scappa via.

La donna ha perso il sorriso, la guarda con tristezza, scuotendo la testa. Forse vorrebbe aggiungere qualcosa ma Isabel è già scomparsa.

Torna in hotel quasi di corsa, senza più vedere nulla. Lacrime che non riesce a bloccare scorrono sulle sue guance e le annebbiano la vista. Un ritornello le rimbomba nella testa: “Spia, spia, chi fa la spia non è figlia di Maria, non è figlia di Gesù…” – Basta, basta, – dice a sé stessa e si ferma di fronte al mare. Ha il fiatone ma il ritornello continua a martellarla dentro.

Isabel respira profondamente e il ricordo che durante quegli anni aveva nascosto nelle pieghe dell’oblio affiora con la nitidezza della realtà.

Ha sei anni, è appena tornata da scuola e la madre è in cucina a preparare il pranzo. È allegra, ha voglia di raccontare. La maestra ha fatto vedere loro un documentario su una nave affondata e lei tutta eccitata descrive alla madre i dettagli di quello che ha visto. La madre la ascolta con attenzione, poi appoggia dei fagioli sul tavolo e, mentre li sgrana, racconta: – Nel mare del mio paese ci sono varie barche affondate. Una notte, durante una terribile tempesta, una nave affondò poco lontano dalla costa. Una donna aspettava il suo comandante. Dovevano sposarsi dopo pochi giorni. Quando la tempesta cominciò ad infuriare e le onde diventarono sempre più alte la donna si recò sulla spiaggia. Altri pescatori erano riusciti a rientrare e a tutti loro la donna chiedeva notizie del suo uomo. Quelli scuotevano la testa con tristezza. Lei prese a correre da uno all’altro supplicando il loro aiuto. Inutilmente. Nessuno ebbe il coraggio di andare in mare con quel tempo. Raccontava la nonna che le onde erano alte come montagne, che il vento alzava la sabbia e rendeva difficile anche respirare. La donna urlava, si disperava, pregava gli uomini uno per uno. Ma tutti la guardavano con la rassegnazione delle disgrazie e scuotevano il capo. Allora lei corse in casa, mise il vestito da sposa e si gettò in mare. Non fu possibile impedirglielo. Il mare la inghiottì quasi immediatamente. Per un lungo momento si vide il velo bianco sulle onde. Da allora tutte le notti, quando c’è tempesta, si sentono i lamenti della “Viuda”, la vedova. Dicono che si lamenta per ricordare a tutti la morte sua e del suo uomo. Più il mare e il cielo si infuriano e più si ascoltano alti i suoi lamenti inframmezzati da urla e singhiozzi.

Isabel ascolta affascinata. La madre si avvicina ai fornelli. Sono ancora immerse nei propri pensieri quando entrano il padre e il fratello più grande. Il silenzio in cui sembra immerso l’ambiente incuriosisce il padre:

– Che silenzio, avete perso la parola?

Isabel, senza badare allo sguardo preoccupato della madre inizia a raccontare con voce concitata, emozionata: – Papà, nel paese di mamma c’è una barca, giù nell’acqua e c’è una donna che piange quando c’è tempesta perché il marito era in quella barca. Papà non l’ha voluto salvare nessuno. Vero mamma? Ma il mare era troppo cattivo quella sera. Lei si è affogata con il vestito da sposa. Mamma, – dice rivolgendosi alla madre – aveva il velo lungo come quello della ragazza che usciva dalla chiesa l’altro giorno?

Isabel si volta a guardare la madre in attesa di una risposta. E vede i suoi occhi sgranati, colmi di paura e il padre che le si avvicina lentamente. Solo un attimo ma il tempo sembra infinito. Il silenzio ormai è come una lastra di piombo. Guarda Paolo, il suo viso pieno di rabbia impotente e poi ancora la madre proprio nel momento in cui il padre alza la mano e lei fa inutilmente un gesto di difesa. Il rumore secco dello schiaffo su quel volto tanto amato lacera l’aria aspirandone la vita. Un gelo di morte si spande tra le pareti della cucina e occupa il piccolo corpo di Isabel. Nelle orecchie tuonano le parole che il padre sussurra con rabbia: – India, sei sempre un’india, è stato inutile cercare di toglierti dalla tua merda. Ma i figli me li lasci stare.

Paolo è pietrificato dalla rabbia, Isabel dalla paura. La madre si gira di spalle. Lacrime silenziose scivolano sulle sue guance mentre continua a rimestare tra le pentole. Isabel sente un pesante e terribile senso di colpa. Ma più forte di tutto è la paura, quella paura che la presenza della madre riesce a volte a mitigare ma che il padre inevitabilmente ricostruisce. Desidera con tutta sé stessa che il padre muoia, chiude gli occhi e lo vede steso in terra, in un lago di sangue. Fantasia così prepotente che, subito dopo, immersa in un nuovo senso di colpa, corre a vedere se non sia morto davvero.

È in sala. Con immutata tranquillità sorseggia un aperitivo mentre sfoglia il giornale. Isabel corre in camera sua e la raggiunge il fratello che, pieno di rabbia, le sputa in faccia: – Spia, spia, sei una vigliacca spia.

Marisa BafileGiornalista e sceneggiatrice. Nel 2006 fu eletta deputata dell'Unione per la circoscrizione America Meridionale (secondo governo Prodi).

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