Improvvisamente assistiamo ad una levata di scudi, a un sorgere di petizioni, raccolte di firme, dichiarazioni indignate in difesa della scuola pubblica. Dopo le parole di Berlusconi (“poter educare liberamente i figli vuol dire non essere costretti a mandarli in una scuola di Stato, dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare dei principi che sono il contrario di quelli che i genitori vogliono inculcare ai loro figli, educandoli nell’ambito della loro famiglia”) il gioco è facile: tutti a difendere la scuola pubblica. Persino Mastrocola, famosissima picconatrice della scuola da dentro la scuola – l’ultimo scritto, Togliamo il disturbo, non affida nemmeno al beneficio di un punto interrogativo la possibilità di continuare ad assegnare un qualche senso alla scuola – è stata interpellata in merito, rispondendo alla sua maniera: inutile commentare in questa sede.
Tutto molto facile, però occorre allargare lo sguardo. Perché nel momento dell’emergenza la difesa d’ufficio è cosa semplice. Ma siamo davvero convinti che Berlusconi si permetta di esternare solo per via di una totale incapacità di porre freni inibitori alle pulsioni incontenibili del suo galoppante delirio egotico e della sua fantasiosa interpretazione di ciò che dovrebbe essere un premier di un Paese davvero democratico?
“Fino a sette anni, i bambini parlano una lingua corposa, ricca, divertente: migliore di quella degli adulti che, lì vicino, fanno pettegolezzi o dicono barzellette. Poi vanno a scuola, ascoltano i discorsi dei professori e dei presidi, e la loro lingua si degrada”. Così Citati, qualche tempo fa, su “Repubblica”. Pietro Citati, di cui ho amato i libri, i suoi Manzoni, Tolstoj, Kafka, Leopardi.
Pietro Citati che continua: “Paola Mastrocola ama i suoi ragazzi perennemente annoiati, e in quei lunghi sbadigli percepisce delusioni, desideri, speranze. Quando guarda verso le cattedre, si accorge che i professori non posseggono il dono di insegnare. Nel mondo e nei libri, non esiste quasi nulla di noioso: tutto è misterioso, concentrato, enigmatico, affascinante. Basta saper capire e interpretare: ma i professori lasciano spento ciò che era spento, morto ciò che era morto. Sopra il loro capo, ci sono i volti dei presidi: sopra quello dei presidi, i sottosegretari; sopra quello dei sottosegretari, l’intelligenza sovrana dei Ministri-Riformatori. I Ministri hanno pretese grandiose, che si possono riassumere in pochissime parole: smantellare, mattone dopo mattone, la scuola: distruggere in pochi anni, o pochi mesi, gli studi, la lingua, il lessico, i significati, i vocabolari. Bisogna ammettere che ci sono riusciti. Oggi, all’inizio del febbraio 2011, rimane soltanto una vaga sembianza di quella che fu la scuola italiana.”
Una visione sconsolante: il senso di un fallimento, coniugato al disprezzo – sì, disprezzo – da parte di un intellettuale che si affaccia dall’ombrellone (punto di osservazione dal quale, per sua stessa ammissione, fa analisi, diagnosi e prognosi sulle prospettive di quei bambini di 7 anni ) a guardare disgustato le umane sorti, emettendo un verdetto senza appello. E – mi si consenta – probabilmente piuttosto privo di cognizione di causa tanto esso risulta generalizzato, incauto, scarsamente analitico del contesto, dei contesti.
Io non credo certo che la scuola così com’è vada bene per assolvere il mandato che la Costituzione le ha affidato in quanto istituzione della Repubblica: licenziare cittadini consapevoli da una parte, e rimuovere gli ostacoli che impediscono la libera e completa espressione dell’individuo dall’altra, in una continua e complessa dialettica tra finalità culturali e obiettivi di inclusione. Scuola di tutti: cittadinanza culturale e sviluppo delle capacità critiche attraverso uguaglianza, emancipazione, pensiero divergente, laicità.
Sappiamo tutti che questi principi altissimi stentano a trovare una applicazione convincente in un mondo che cambia vertiginosamente a fronte di una scuola che è rimasta nell’impostazione e nelle pratiche sostanzialmente identica a se stessa.
Sappiamo anche che la ricerca del perché, del cosa, del come fornire chiavi di lettura per interpretare la complessità e la diversità – le due cifre dell’oggi – spesso si polverizza nelle inerzie, negli immobilismi, nelle abitudini tranquillizzanti.
Ciò non toglie che la scuola dello Stato (l’istituzione scuola) da molti anni – di cui gli ultimi, quelli della gestione Gelmini, rappresentano il momento più drammatico – sta facendo faticosamente fronte a situazioni di lavoro quotidiano proibitive per garantire il diritto allo studio e agli apprendimenti. Quelle – peraltro – trattate dai grandi osservatori/opinionisti/interpreti delle cose di casa nostra con il silenzio e con il disinteresse.
Siamo costretti a patire – ma non a subire passivamente – un premier logorroico, egotico e delirante, incapace di frapporre tra la sua personalistica idea del mondo e le parole che pubblicamente proferisce alcun senso di responsabilità istituzionale.
Siamo costretti a tollerare i sodali e i lacchè del premier stesso, incapaci di contrapporsi alle irresponsabili esternazioni se non con un pavido silenzio, quando non con la spudorata negazione del contenuto stesso della esternazione.
Ci piacerebbe almeno – come insegnanti e prima ancora come cittadini – poter contare su un’intellighenzia in grado di rispettare il confine tra lecito e illecito; tra analisi critica e dileggio, ingiuria, altrettanto irresponsabili omologazioni del caso singolo all’intera generalità, della patologia del sistema al sistema stesso.
L’attacco frontale alla scuola della di Stato è iniziato più o meno tra il 2006 e il 2007. In quel periodo – durante il governo di centro sinistra e il ministero Fioroni – i media hanno inaugurato una periodica, implacabile campagna di informazione a senso unico: quella sulla mala scuola.
All’“anno zero” del bullismo fu dato il via dai filmati dell’aggressione, diffusa su Internet, a un ragazzo disabile di 17 anni in una scuola di Torino. Da allora il binomio scuola-bullismo è stato riproposto con asfissiante puntualità, come se prima gli istituti italiani non avessero mai assistito ad episodi incresciosi. Un po’ come per la pedofilia, la cassa di risonanza dei media e l’abuso della rete hanno proiettato nell’immaginario collettivo un fenomeno esistente da sempre e raramente nominato.
Non a caso contemporaneamente, su altro fronte, si registrò l’ondata delle reprimende degli editorialisti: il cahier de doléance di signori che – autorevoli e competenti nei propri specifici campi, comunque diversi dalla scuola – si affannavano a lanciare denunce e strali indiscriminati contro gli insegnanti. Suggerendo formule definitive ed intransigenti, forti del semplice fatto di aver frequentato in un tempo più o meno remoto la scuola.
La punta di diamante in questo senso fu un editoriale di Pietro Ichino, che consegnava un identikit di straordinario e irrispettoso qualunquismo dell’insegnante italiano, identificato nella figura del prof. M., meridionale immigrato in un liceo di Milano, ritardatario, nullafacente, assenteista; insomma, pane per i denti di Brunetta, che non a caso usa rivolgersi ai docenti con occhio nostalgico per quella iconografia.
Un’immagine che ha dato voce ad un sentire comune, che individua nella classe docente l’alfa e l’omega dei mali della nostra società: rubastipendio, privilegiati, spesso incompetenti, beneficiati da mesi di vacanza e da orari di lavoro ingiustamente leggeri. L’epica del fannullonismo ha sferrato un colpo definitivo alla percezione collettiva della scuola dello Stato, arretrando ulteriormente il limite di accettabilità delle sconsiderate affermazioni di cui spesso essa è stata bersaglio. Si è trattato della punta di diamante di quell’operazione di distruzione del rispetto istituzionale che uno strumento costituzionale, 8 milioni di studenti e un milione e mezzo di lavoratori meriterebbero; e che invece ha consentito a Brunetta di considerare la scuola esclusivamente come una branca della Pubblica Amministrazione, restringendone le maglie dei diritti contrattuali e, soprattutto, della libertà di pensiero. Con la complicità e il gentile aiuto, nel tempo, di Galli della Loggia, Panebianco, Giavazzi e soci.
Il tentativo di restyling di Berlusconi che prova a riproporre una propria credibilità attraverso la squallida e manipolatoria evocazione di un formulario di facile impatto (famiglia, antisessantottismo, valori) è l’ultimo espediente per ingraziarsi una platea integralista e per ammiccare alle gerarchie vaticane, mirando ad ottenere assoluzione senza confessione delle sue vicende personali e politiche.
Ciò non toglie peso alla gravità delle sue affermazioni e mette in luce, se ancora ce ne fosse bisogno, il vero obiettivo dell’azione del governo: la distruzione della scuola dello Stato e insieme il senso di una contraddizione talmente drammatica di ruoli e funzioni, in un conflitto istituzionale premeditato che ha ormai il segno della ineludibilità.
D’altra parte viviamo in un Paese in cui l’analfabetismo istituzionale è pane quotidiano. Si pensi alle dichiarazioni della fedele Gelmini, in difesa delle esternazioni del premier: “«Il pensiero di chi vuol leggere nelle parole del premier un attacco alla scuola pubblica è figlio della erronea contrapposizione tra scuola statale e scuola paritaria. Per noi, e secondo quanto afferma la Costituzione italiana, la scuola può essere sia statale, sia paritaria. In entrambi i casi è un’istituzione pubblica, cioè al servizio dei cittadini». Il travisamento dei principi giuridici è totale, come ha limpidamente dimostrato Salvatore Settis su “Repubblica”. E tale proterva e impudica incompetenza dice molto del fallimento del progetto – in realtà una “soletta” pubblicitaria – di inserire Cittadinanza e Costituzione tra gli insegnamenti obbligatori, fallito e scongiurato dal taglio delle ore di Storia e di Diritto.
Il gioco è chiaro, le manovre sono scoperte. Passata l’ondata di facile indignazione, rimarrà una scuola dello Stato sempre più povera e sempre più sola a doversi difendere dagli attacchi proprio di chi dovrebbe garantirne il rispetto, l’integrità, il funzionamento. E dai vaticini dei perenni soloni, stigmatizzatori di sempre, nostalgici o post moderni cantori di soluzioni efficaci solo per la carta stampata e per qualche titolo di giornale.
Tutti gli insegnanti, gli studenti e i genitori che continuano a concepire la scuola dello Stato come strumento supremo http://www.quirinale.it/qrnw/statico/costituzione/costituzione.htm dell’art. 3 della Costituzione devono opporsi quotidianamente e non solo nei momenti di emergenza a questi irresponsabili accanimenti nel delegittimare uno strumento di emancipazione, di educazione, di cittadinanza per tutte e per tutti.
La scuola dello Stato, anche così com’è, anche nella sua imperfezione, nelle sue criticità, nella sua difficoltà a rispondere a tutte le domande che vengono da fuori, nella parziale incapacità, a volte, di fornire significative chiavi per interpretare il mondo, è al momento uno dei rari e residui presidi di civiltà e un baluardo contro la perdita di direzione di questo nostro sventurato Paese. Essa è infatti il luogo in cui la comunità educante agisce nella direzione della coesione e non della frantumazione, in nome dell’interesse generale e non di risposte a domande individuali.
Marina Boscaino è insegnante di ruolo di italiano e latino presso il Liceo classico "Plauto" di Roma. Giornalista pubblicista (l'Unità, il Fatto Quotidiano), fa parte del comitato tecnico-scientifico dell'associazione professionale "Proteo Fare Sapere": www.proteofaresapere.it.