Sull’altopiano dell’Azerbaigian una sera le stelle appaiono
vicinissime, in un cielo regale, e gli abitanti del quartiere tiran fuori i loro
korsi11. Nella notte il termometro precipita a – 30°; il giorno dopo, l’inverno è in
città. Un vento tagliente scende da nord a raffiche, investe la neve e ghiaccia la
campagna. I lupi si fanno arditi e i senza-lavoro dei sobborghi s’organizzano in
bande per spogliare i contadini. Le barbe e i baffi si coprono di brina, fumano i samovar,
le mani restano in fondo alle tasche. Non si hanno in mente che tre parole:
tè… carbone… vodka. Sulla porta del nostro cortile, i ragazzini armeni hanno
disegnato col gesso una grossa puttana con gli stivali, innumerevoli gonnelle, e
un piccolo sole sul basso ventre. Il che certo non manca di poesia, almeno fino a
quando si riesce a riempire la stufa e a pagare il venditore di legna.
Il nostro amico conosceva una sola parola in tedesco: Guten Tag, che nella sua bocca
sdentata era divenuta huda daa; poco importava: era una parola straniera, noi
eravamo stranieri, dovevamo capirla. Era un vecchietto minuto, dagli occhi lagrimosi
e le mani spaccate dai geloni, che innaffiava tremando i suoi ciocchi di
legno, per renderli più pesanti: fico, salice, giuggiolo dalle venature violacee; legni
biblici e che gonfiavano bene. Quando lo sorprendevo in quest’operazione,
sbottava in un riso candido e m’osservava da sopra i baffi per vedere se mi arrabbiavo
sul serio. Le comari armene del quartiere gli facevano ben notare che
la sua condotta offendeva Dio, e cercavano di farlo vergognare di vendere quella
roba; ma finivano per comprare. Il legno scarseggiava; bagnato o no, era comunque
un affare.
Mentre Thierry lavorava alle tele che contava di vendere a Teheran, io avevo
preso degli allievi per assicurare la sussistenza. Venivano al calar del giorno, dal
giardino, con la neve fino alle anche.
Ah! professore… nella Tabriz è davvero nera la nostra vita…
Il farmacista. sapeva il francese a sufficienza per discutere gli avvenimenti
della città, per spiegarmi senza errori i tre stadi della sifilide che aveva prudentemente
studiato nel Larousse médical, o per assaporare lentamente Pelle d’asino, Il
gatto con gli stivali e tutti quei racconti cristallini che riconciliano logica e poesia
e non conoscono altra fatalità che il lieto fine. Per esempio, faticavo non poco a
spiegargli cosa fossero le fate, perché nulla qui corrispondeva a quelle apparizioni
fugaci, a quei cappelli a cono, a quella femminilità affinata ma astratta. Le incantatrici
del folklore locale erano ben diverse: erano o le peri, le ancelle del Male
della tradizione mazdeista, o i robusti geni femmine dei racconti curdi, che divoravano
i viaggiatori attirati dai loro incanti dopo averli ben bene sfiniti in un letto.
Pure, quei racconti piacevano. Finito un capitolo, il farmacista si asciugava
gli occhiali, mormorava: «Mi piace Perrault… è così dolce» e su questa confessione,
si seppelliva nel suo quaderno, rosso come un peonia. Mentre Carabosse
o Carabas, sillaba dopo sillaba, svelavano prestigi e segreti, la notte scendeva
sulla città, e poi la lana della neve sulle strade nere. I miei vetri si coprivano di
piumette di brina e i primi cani miserabili cominciavano a urlare. Io smoccolavo
la lampada a petrolio. Avevamo lavorato bene. Il farmacista si rimetteva la
pelliccia, mi porgeva i cinque toman che noi avremmo al più presto cambiato in
vodka, e mi lasciava sulla soglia sospirando: «Ah! professore, che inverno perso,
atroce, qui… nella Tabriz».
In vodka, o in biglietti del cinema Passage, sempre gremito perché ci faceva
caldo. Strano locale: sedie di legno, soffitto basso, una larga stufa rovente a volte
più brillante dello schermo. E un pubblico meraviglioso: gatti intirizziti, mendicanti
che giocavano a dama sotto la lucina dei lavabo, bambini che piangevano
dal sonno e un gendarme incaricato di mantenere l’ordine quando veniva trasmesso
l’inno nazionale proiettando sullo schermo il ritratto dell’imperatore,
spesso a testa in giù.
All’uscita, un freddo pungente vi toglieva il respiro. Con i suoi muri bassi, le
ombre bianche, gli scheletri d’alberi scarnificati, la città, tutta rannicchiata sotto
la neve e la Via Lattea, aveva qualche cosa di magico. Tanto più che una canzone
risuonava selvaggiamente per le strade spazzate dal vento: la polizia aveva
lasciato accesi gli altoparlanti della piazza, che trasmettevano Radio-Baku.
Si riconosceva all’istante quella voce ineguagliabile: era Bulbul – l’usignolo – il miglior
cantante in lingua turca di tutta l’Asia Minore. Un tempo abitava qui, anzi
era una delle glorie cittadine. Poi i russi, non senza ragione, l’avevano attirato
da loro con cifre favolose. E da allora, numerosi apparecchi iraniani si sintonizzavano
su Baku per sentirlo… e sentivano il resto. Le sue canzoni erano, in ogni
caso, prodigiose; ci sono quattro folklori diversi in città, tutti lancinanti, e nessuno
si priva della musica, ma nulla può uguagliare in lirismo e crudeltà quelle
vecchie lamentazioni transcaucasiche.