Il Tg7 di Enrico Mentana ha mandato in onda un breve servizio sul presidente leghista della Regione Friuli, Ballaman, che usava l’auto blu anche per andare in gabinetto. E quando ha capito che stava per essere scoperto, ha rinunciato al privilegio solo per attribuirsi 3200 euro in più al mese: tre volte lo stipendio di tanti precari. Insomma, un bel tipetto di padano, il nostro Ballaman, protagonista in passato di altre imprese ai danni della pubblica amministrazione. Anche se, va detto, i leghisti danno il peggio di sé anche senza rubare, semplicemente con la loro politica persecutoria nei confronti dei più deboli. O votando leggi per cancellare i processi di Berlusconi, a scapito di tutti coloro che attendono giustizia. Dire una cosa e poi farne un’altra è tipico della Lega, che prima ha tuonato contro le elezioni anticipate, poi le ha chieste a gran voce e ora non le vuole più. Il calcolo è cambiato nel giro di poche settimane, perché la patria della Lega è il tornaconto.
La Gelmini non capisce che i libri sono il pane di domani
Nel film cinese “La battaglia dei tre regni”, andato in onda su Sky e ambientato nel 2° secolo dopo Cristo, un bambino chiedeva perché comprare libri, quando manca il pane. Il maestro gli rispondeva: «Quando sarai più grande capirai che il libro è il pane di domani». Un concetto così semplice che, in teoria, non occorrerebbe essere ministri per capirlo. Invece da noi in Italia, nel terzo millennio, c’è un ministro della pubblica istruzione che non vuole proprio capire e che appare in tv solo per citare cifre il cui senso, ammesso che abbiano senso, è che non ci possiamo permettere una scuola decente. Una scuola che consenta ai bambini di fare l’orario pieno, di essere sostenuti se ne hanno bisogno o magari semplicemente di stare in classi di non più di 25 alunni (come vuole la legge!) e non ammucchiati in aule fatiscenti, con docenti precari e malpagati. Persone che la signora Gelmini disprezza perché non faranno mai carriera come ha fatto lei.
Michela Vittoria Brambilla, ministro “squadrista” di Berlusconia
D’estate ci lamentiamo perché i dibattiti televisivi chiudono per ferie e ora che tutti i più bei nomi del giornalismo appaltato tornano in video già non ne possiamo più. Non facciamo nomi, ma solo cognomi: Bechis, che somiglia un po’ a Gambadilegno, il simpatico abitante di Topolinia. Appena compare lui, tiriamo un sospiro di sollievo, perché, pur essendo vicedirettore di Libero, almeno non è Belpietro. Bechis, ospite ad Omnibus insieme ad altri colleghi (i politici ancora latitano), ci ha spiegato che è normale fischiare ai comizi. Si è cominciato nel dopoguerra e si è continuato fino alla madonnina contro Berlusconi (ma che schifo di esempio!). Dunque, è normale che possa essere fischiato anche Fini. Verissimo. La cosa mai vista, invece, sarebbe che un ministro della Repubblica organizzi viaggi di disturbatori pagati contro uno del suo stesso partito. A meno che la signora Brambilla non sia ministro pure lei di Topolinia, provincia di Berlusconia.
La cucina di Fini e la fame degli italiani che (non) lavorano
Una delle insegnanti costrette a fare lo sciopero della fame contro i licenziamenti della ministra Gelmini, ha dichiarato al Tg3 che non ne può più di sentir parlare della cucina di Fini. Eppure, i killer mediatici di Berlusconi vanno avanti nella loro missione e, a sentire Feltri ospite a La7, sarebbero impegnati in una coraggiosa «inchiesta giornalistica». Solo che stavolta, guarda caso, non si tratta di scoprire le magagne del potere, ma di fare un favore all’esecutivo attaccando chi gli dà fastidio. D’altra parte, qualcuno dovrà pur dare una mano al povero Berlusconi, (casualmente omonimo dell’editore di Feltri), stretto tra Ghedini e Gheddafi, tra processi che minacciano e affari che promettono. Infatti, pur essendo l’uomo più potente e ricco d’Italia, è pieno di preoccupazioni. E Dio solo sa a quali umilianti buffonate internazionali è disposto un miliardario, per qualche euro in più. Mentre noi salariati non ci abbasseremmo a baciare la mano a un dittatore.
Basso, tinto, ridicolo, maschilista: siamo governati dalla parodia di Gheddafi
È superficiale sostenere che Gheddafi e Berlusconi sono uguali. Certo, basta guardarli in tv per vedere i lati comuni: stessa bassa statura, stessa tintura per capelli (ma quelli del rais libico almeno sono suoi), stesso vivo sprezzo del ridicolo nell’atteggiarsi e nel circondarsi di ragazze a pagamento. Ma, se Berlusconi non va in giro per il mondo a chiedere (alle donne, poi) di convertirsi, alla sua discesa in campo dichiarò di essere l’unto del Signore. E ora lascia che nel suo governo imperversino certi tipacci di rito celtico che, in nome di un cattolicesimo elettorale, hanno dichiarato guerra alle altre religioni, usando come guardia padana perfino i maiali. Strumento di cui, del resto, si sono serviti anche per scrivere una legge elettorale attraverso la quale si sono dati una maggioranza mai vista in passato e, incredibilmente, diventata invisibile anche al presente. Perciò, non è tanto che Gheddafi somigli a Berlusconi; è Berlusconi che ne è la parodia involontaria.
Sono nata a Ghilarza (Oristano), ho studiato lettere moderne all’Università Statale di Milano, in pieno 68. Ho cominciato a lavorare all’Unità alla fine del 73, quando era ancora ‘organo’ del Pci, facendo esperienza in quasi tutti i settori, per approdare al servizio spettacoli negli anni 80, in corrispondenza con lo straordinario sviluppo della tv commerciale, ovvero con l’irresistibile ascesa di Silvio Berlusconi. Ho continuato a lavorare alla redazione milanese dell’Unità scrivendo di televisione e altro fino alla temporanea chiusura del giornale nell’anno 2000. Alla ripresa, sotto la direzione di Furio Colombo, ho cominciato a scrivere quotidianamente la rubrica ‘Fronte del video’, come continuo a fare oggi. E continuerò fino a quando me lo lasceranno fare. Nel 2003 è stato stampato e allegato all’Unità un volumetto che raccoglieva due anni di ‘Fronte del video’.