Alexandra Fuller, La leggenda di Colton H. Bryant, Mondadori, 2009.
C’è un posto che si chiama Viareggio, dove due cisterne scavallano dai binari spargendo gpl in stazione e tutt’intorno; l’esplosione che ne segue carbonizza, senza fare distinguo di età, razza, sesso e religione, 28 persone che abitavano in zona o passavano di lì. Si è detto, e ancora si dice, che il materiale rotabile era vecchiotto e i controlli cui lo avevano sottoposto volutamente “blandi”, per non perdere tempo. Chi viaggia su un treno tutti i giorni ringrazia, molto molto rassicurato.
C’è un posto che si chiama Piacenza, dove uno dei ponti più importanti per la viabilità nazionale (perlomeno finché non spunterà quello sullo Stretto, è ovvio) si spezza come una pista per le automobiline elettriche: chi evita per un soffio di lasciarci la pelle se li ricorda bene gli imponenti lavori di consolidamento, perché sono finiti da una manciata di mesi. Sono indagati 16 funzionari dell’Anas, qualcuno di loro non nuovo all’esperienza per storie di mazzette, appalti frettolosi e così via.
C’è un posto che si chiama Abruzzo, dove la terra si scuote di notte e le case vengono giù come fossero di sabbia. In effetti, si scoprirà che di sabbia nei muri ce n’era, anche troppa, anche se L’Aquila è lontana dalle spiagge. Qualcuno ce l’avrà pur portata, magari perché costa meno del cemento.
C’è un posto che si chiama Torino, dove nella ThyssenKrupp bruciano 7 operai. Sei funzionari dell’azienda vengono rinviati a giudizio, uno per omicidio volontario: insomma non si può proprio pensare a una maledetta fatalità.
Tragedie che fanno notizia, sui giornali non s’è parlato e non si parla d’altro. Si avviano indagini approfondite per accertare le responsabilità, si promette giustizia, “qualcuno dovrà pagare”. Talvolta, ma solo in casi eccezionali, ci si commuovono anche i Grandi della Terra e relative first lady.
Però si sa, “a pagare e a morire c’è sempre tempo”. Più a pagare che a morire. Soprattutto se la morte non è così eclatante da attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, perché magari avviene in un cantiere un po’ fuori mano, in una fabbrichetta di periferia, oppure in un impianto talmente grande e con così tanti operai che una percentuale di “incidenti” è da ritenersi fisiologica.
A una delle vittime di questi “incidenti” Alexandra Fuller dedica il suo libro, che dunque – purtroppo – non è solo un romanzo.
C’è infatti un posto che si chiama Evanston, nel Wyoming, dove è inutile chiedere ai ragazzi “cosa farai da grande”, perché tutti sanno già quale sarà il loro destino. A pochi passi da Evanston, nel 1973 è stata scoperta una riserva di petrolio e di gas naturale. Da allora quel paesino di 4000 anime ha quintuplicato i suoi abitanti e da allora, in qualunque direzione ci si diriga uscendo da Evanston, dopo poche ore di macchina si incappa in un impianto petrolifero. Ecco cosa fanno da grandi i ragazzi di Evanston: si mettono in coda per essere assunti come manovali e operai nei mastodontici impianti di trivellazione della zona.
Colton H. Bryant non fa eccezione. Non ha molti sogni, Colton. A uno come lui – che i bulli del quartiere chiamano “ritardato”, con la piccolezza di chi non ammette un modo diverso di guardare la vita – basta un fucile per andare a caccia di anatre, un cavallo, qualche amico cui volere un bene del diavolo e una famiglia che ama incondizionatamente tutte le sue stranezze, forse per via di quei suoi occhi azzurri incapaci di malizia, forse per via di quel suo cuore grande e impetuoso, da angelo scalmanato. E quando Melissa accoglie tra le braccia la sua tenera goffaggine, Colton capisce di avere avuto tutto quello che un uomo può desiderare: una moglie, due figli, un lavoro faticoso, con turni massacranti, ma ben retribuito e non troppo lontano da casa.
Mica è un santo, beninteso, e nemmeno un eroe: un po’ buffone, piuttosto, tanto da improvvisare una danza della felicità per gli amici di cattivo umore; e un po’ sconsiderato, fino a piazzarsi in mezzo ai binari e fermare un treno per togliere dai guai il suo miglior compagno di avventure. Ma non sarà qualche impresa azzardata a uccidere Colton prima del suo ventiseiesimo compleanno: sarà una maledetta ringhiera che avrebbe dovuto esserci e non c’era, saranno quei 2000 dollari risparmiati da una società petrolifera che, una settimana prima che Colton precipitasse nel pozzetto dell’asta di perforazione, si era pubblicamente vantata di conseguire risultati eccellenti, da record, anche grazie al “basso costo delle nostre strutture”.
E tre mesi dopo la morte di Colton – quarto perforatore ad aver perso la vita negli impianti della vallata in un anno e mezzo – la stessa società ha dichiarato un aumento del 174 per cento delle proprie entrate nette; per la parte di responsabilità avuta nell’incidente di Colton le è stata inflitta una multa di 7031 dollari. Alla famiglia Bryant, oltre all’indennizzo previsto dal contratto, non è stato riconosciuto alcun risarcimento per la perdita.
Questa è la storia di Colton, ma potrebbe essere quella dei tanti Mario, Salvatore, Ahmed o Bogdan, ai quali invece non è toccato più di un trafiletto nella cronaca locale. Per loro, qualunque provvedimento di tutela della sicurezza sarà tardivo. Per gli altri, qualunque provvedimento incisivo dovrà aspettare che passi di moda l’equazione che identifica tout court “sicurezza = – clandestini + ronde” e si torni a considerare la sicurezza in un’ottica un po’ meno ristretta e a parlare di Responsabili del servizio di prevenzione e protezione, del potenziamento dell’organico degli Ispettori del lavoro, del rispetto del Testo Unico in materia di sicurezza sul lavoro (che prevede anche, guarda un po’, la verifica “dell’idoneità tecnico-professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori da affidare in appalto”, giusto per evitare che costruzioni, ristrutturazioni e quant’altro vengano svolte con due occhi all’economia e nessuno alla qualità) e di tutti quei decreti che, se applicati con rigore, potrebbero evitare vergognosi incidenti.
Una digressione. Anche la pubblicità televisiva cavalca l’onda: un prodotto antizanzare si ripromette di sbaragliare la concorrenza puntando sul seguente slogan: “Insetti clandestini? XXX ferma l’invasione!”. Che dire: complimenti per il buongusto.
Federica Albini, laurea in filosofia. Ha insegnato negli istituti statali. Nel 1994 lascia il mondo della scuola per avventurarsi nell’editoria. È redattrice in uno studio editoriale. Vive a Piacenza, lavora a Milano.