Il problema delle alleanze sulle spalle del Pd. Non è semplice riunire una coalizione da Di Pietro a Rifondazione. Senza contare le correnti che traballano nel partito. Ricordiamoci com'è finito Prodi
Mario LAVAGETTO – La scommessa delle opposizioni: senza la sinistra non si vincono le elezioni. Ma quale sinistra?
14-10-2010È ormai diffusa la convinzione che, salvo eventi imprevedibili e nonostante le dichiarazioni avventurose di Berlusconi, il ricorso alle urne nella prossima primavera sia inevitabile. In vista di quell’appuntamento il problema delle alleanze assume primaria importanza, per tutti i partiti ma in modo particolare per il Pd, che mette in gioco il proprio destino, la propria collocazione e anche la propria fisionomia una volta accantonato il mito sciagurato dell’autosufficienza o della vocazione maggioritaria che dir si voglia.
Ma il problema delle alleanze non ha una sola faccia. Un conto è una alleanza o (se si preferisce) una convergenza di forze politiche diverse e scarsamente compatibili tra loro in vista di uno scopo circoscritto e determinato: una nuova legge elettorale che cancelli la vergogna democratica di quella attuale la cui responsabilità ricade non solo su chi l’ha proposta, ma anche – sia pure in diversa misura – su chi l’ha immediatamente controfirmata nonostante la più che dubbia costituzionalità e di chi non ha fatto di tutto per cambiarla quando se ne è presentata la possibilità.
A questo proposito c’è da restare strabiliati a vedere chi ha scelto a suo tempo di far cadere il governo Prodi, dichiarandosi pronto ad affrontare le urne con qualsiasi legge elettorale e liquidando in tal modo ogni possibile alleanza, venirsene fuori oggi a porre condizioni e a ventilare veti contro leggi che non siano scrupolosamente maggioritarie. Posizione sconsiderata e irresponsabile a fronte di una legge tanto iniqua e in così aperto conflitto con alcuni principi fondamentali della costituzione da rendere accettabile qualsiasi soluzione di compromesso, proporzionale, semi-proporzionale o maggioritaria, purché tale a) da permettere ai cittadini di esprimersi e di scegliere i propri rappresentanti; b) da non consegnare il parlamento in mano a chi non disponga di una effettiva maggioranza nel paese tramite il dispositivo di un premio sconsiderato e iniquo.
Ben diverso è il problema di una alleanza elettorale tra forze politiche relativamente omogenee e che siano in grado di condividere (e di attuare) un programma di governo concordato. Il principale partner di questa alleanza dovrebbe essere – secondo diversi esponenti del Pd – l’Udc. Dietro una simile indicazione si intravede un assioma ricorrente e che non sembra corroborato in ogni circostanza dalla prova dei fatti. Vale a dire: “Le elezioni si vincono al centro”.
Ma gli ostacoli sulla strada di una simile alleanza non sono pochi: quelli che nascono dall’Udc per ora intransigentemente indisponibile a estendere l’alleanza all’ Italia dei valori e alla sinistra di Vendola (figurarsi a quella di Ferrero e Diliberto); e quelli, forse meno appariscenti ma di maggiore portata, che nascono dalla breve storia del PD e che fanno di quel partito un agglomerato di posizioni difficilmente conciliabili e governabili. Walter Veltroni che oggi sventola, a sostegno delle proprie posizioni, il 33% raggiunto nelle elezioni 2008 dovrebbe chiedersi se qualche responsabilità nel calo dei consensi non sia imputabile alla sua gestione ondivaga del partito e all’iniziale mancanza di chiarezza su alcuni punti di importanza cruciale, il che ha permesso una tortuosa convivenza non tanto tra posizioni diverse, ma tra principi irriducibili.
Questioni come quelle legate ai diritti civili, alla laicità dello stato, alla libertà di scelta e alla libertà di ricerca scientifica non sono in alcun modo eludibili: rimuoverle in vista di un’unione o di un’alleanza contingente significherebbe riproporre gli stessi nodi irrisolti che hanno minato e condizionato la vita del PD. Da interno che è il conflitto verrebbe proiettato all’esterno condizionando a priori l ‘efficacia e l’incisività di azione di ogni eventuale futuro governo.
E allora proviamo a sovrapporre a quell’assioma un altro, meno apodittico ma almeno altrettanto probabile: “Forse le elezioni non si vincono a sinistra, ma certamente non si vincono senza la sinistra”. Vale a dire: senza che un programma di sinistra, elaborato senza cedimenti o tentennamenti, induca a rientrare il massiccio astensionismo che ha caratterizzato in maniera sempre più marcata le ultime tornate elettorali. È politicamente in grado – mi chiedo – il Pd di elaborare e di proporre un simile programma con il concorso delle altre forze di sinistra prima di cercare alleanze all’insegna di un compromesso di basso profilo? Vuole finalmente definire la sua collocazione e delineare quella che ho inizialmente chiamato la sua “fisionomia”?
Può, con il contributo delle altre forze di centrosinistra, su alcuni grandi nodi (il lavoro, la casa, l’ambiente, i diritti) avanzare proposte condivise e tali da promuovere la ricerca di punti di incontro accantonando le differenze? È in grado, su questa base, di assumere l’iniziativa e di proporre a tutte le forze di opposizione un’azione comune basata sulla ricerca di un compromesso alto? Non è solo il destino di un partito, è il destino dell’intero paese che si gioca sulla risposta a questi interrogativi.
Mario Lavagetto ha insegnato Teoria della Letteratura all'Università di Bologna. Ha scritto saggi pubblicati da Einaudi e Bollati Boringhieri. Ha curato diverse edizioni di classici dei Meridiani Mondadori.