Essendo sicuramente uno dei fondatori della poesia ispano-americana del secondo Novecento, insieme all’uruguayano Mario Benedetti, all’argentino Juan Gelman, al peruviano Jorge Eduardo Eielson, al colombiano Álvaro Mutis e a pochi altri, Ernesto Cardenal è l’unico tra tutti loro a destare sentimenti opposti, grande ammirazione e totale adesione intellettuale da una parte e ostilità e diniego dall’altra. E forse questa ricezione contrastante ed estrema non si deve soltanto alla sua posizione politica con relativa militanza – costante, immodificata e assoluta in tutti i lunghi anni della sua vita – ma anche a qualcosa di più sottile e più difficile da capire fino in fondo, e cioè la sua visione del mondo. In essa il regno umano e il regno divino, la dimensione immanente e quella trascendente, sono strettamente intrecciati, e non basta ricordare che Cardenal è cattolico per definirla chiaramente. Dovremmo aggiungere che è sacerdote e che, malgrado sia stato sospeso a divinis, non ha mai smesso di considerarsi un prete e di vivere come tale, rispettando i voti di castità, di povertà e di ubbidienza, quantunque quest’ultimo metta in evidenza il conflitto tra leggi umane e leggi divine. Cardenal è per convinzione e per vocazione un “disubbidiente”, un contestatario delle leggi umane, almeno di quelle che provocano ingiustizia, discriminazione e sofferenza tra gli uomini; ma non ha mai smesso di amare Dio e di ubbidire alle leggi divine.
In un mondo sempre più votato all’utilitarismo, alla miscredenza e all’opportunismo, la posizione di Cardenal può apparire estrema, perfino esagerata; può risultare incomprensibile, anche se chiarissima nella sua attività pubblica e nel suo verbo poetico. Così come la poesia mistica e la santità – pur costituendo il grado più alto della spiritualità vissuta e comunicata – si presentano agli occhi dei più come un’espressione e uno stato “rari”, fuori dalla realtà, estranei ai sentimenti e ai bisogni dei comuni mortali, la vicenda e la poesia di Cardenal non riescono a valicare il muro di razionalità che la maggioranza pensante del nostro tempo ha costruito davanti a sé per proteggersi dai valori assoluti che non producono un’utilità immediata. César Moro scattava furibondo quando sentiva rammentare Giovanni della Croce senza il “Santo” davanti; anche se chi commetteva questa imprudenza era un suo caro amico, di indiscutibile cultura e sensibilità, come Emilio Adolfo Westphalen. Oggi, mezzo secolo dopo, la tendenza ad appiattire i valori spirituali continua ad aumentare. E una persona come Cardenal e una poesia come la sua, che gira attorno all’amore divino, risultano spiazzanti e scomode.
Noi invece chiediamo al lettore di abbandonarsi a questo invito esultante del poeta, che fin dall’inizio e tuttora ci rammenta in molte e svariate forme che tutto nella natura, anche le creature più umili, cantano per onorare la vita come dono divino e per ricordare la loro eternità, perché tutto ciò che è stato creato è chiamato a tornare nella resurrezione:
A Pasqua resuscitano le cicale
– sepolte per 17 anni allo stato di larva –
milioni e milioni di cicale
che cantano e cantano tutto il giorno
e la sera stanno ancora cantando.
[…]
E perché cantano tanto? E cosa cantano?
Cantano come trappisti nel coro
davanti ai loro Salteri e ai loro Antifonari
cantando l’Invitatorio della Resurrezione.
(da Gethsemany, KY)
Tutte le creature, grandi e piccole, superbe e umili, animate o inanimate, esseri e perfino cose, tutto è avvolto nell’amore di Dio e quindi ogni cosa è chiamata a una vita migliore: questa è la fede incrollabile del sempre monaco Padre Ernesto.
Dietro al monastero, vicino alla strada,
esiste un cimitero di cose vecchie,
dove giacciono il ferro arrugginito, pezzi
di coccio, tubi spezzati, fil di ferro contorto,
pacchetti di sigarette vuoti, segatura
e lamiera, plastica vecchia, copertoni rotti,
che aspettano come noi la resurrezione.
(da Gethsemany, KY)
Ma gli esseri umani, che hanno avuto il privilegio del libero arbitrio, non sempre capiscono queste straordinarie verità, e adorano falsi idoli, e imparano a mentire, accumulano ricchezze, sfruttano il prossimo, parlano di pace nelle Conferenze di Pace / e in segreto si preparano per la guerra (v. Salmo 5). Contro questi infami – i dittatori, i gangster – bisogna lottare. E la lotta andrà a buon fine, perché Dio protegge i giusti, benedice coloro che non credeno nelle menzogne dei potenti, e li circonda con il suo amore / come con carri armati.
Il mondo creato da Dio in maniera perfetta e felice è stato deformato dall’uomo. Quindi bisogna riportare la società travisata in cui ci tocca vivere nella forma giusta che piace a Dio e a noi apre le porte di una felicità autentica e duratura. L’Apocalisse ricreato da Cardenal canta con gioia la distruzione di un mondo che ha smarrito la giusta strada, dalle cui ceneri sorgerà un nuovo mondo migliore:
e l’Organismo ricopriva tutta la rotondità del pianeta
ed era rotondo come una cellula (ma le sue dimensioni erano planetarie)
e la Cellula era acconciata come una Sposa che aspetta lo Sposo
e la Terra era in festa
(come quando la prima cellula celebrò la sua Festa di Nozze)
e c’era un Cantico Nuovo
e tutti gli altri pianeti abitati udirono cantare la Terra
ed era un canto d’amore
Anche la ricreazione del mondo indigeno, ripetutamente fatta da Cardenal nell’Omaggio agli indios americani, Economia de Tahuantinsuyu, Lo Stretto Incerto, e altri componimenti, nasce dalla certezza che la dominazione di un popolo ad opera di un altro è di per sé negativa e censurabile, e più in particolare quando i popoli assoggettati e umiliati sono le grandi culture preispaniche d’America. Allora l’ingiustizia commessa è più grave e diventa un dovere cantare e ricostruire la storia di quegli antenati meravigliosi, perché la cultura ufficiale, fatta dai dominatori, ci ha insegnato a ignorarli o, peggio ancora, a disprezzarli.
Questa fiera rivendicazione delle proprie radici indigene – radici storiche e culturali, che riguardano tutti gli ispano-americani, abbiano o meno sangue india – appare nell’opera di Cardenal in sintonia con un movimento neoindigenista che si diffonde in tutta l’America Spagnola a partire dalle opere di Miguel Ángel Asturias in Centroamerica e José María Arguedas nella zona andina. Essa lo indica inoltre come erede dell’avanguardia nicaraguese, nella quale si associano lo spirito innovatore e la matrice popolare. Lui è, in effetti, il migliore esponente di quella linea poetica definita come exteriorismo (perché si contrappone all’interiorità della poesia simbolista e neo-romantica), descritta da lui stesso come oggettiva, narrativa e aneddotica. È una poesia più vicina alla prosa che al verso; e lui predilige di fatto il versetto, come rimembranza biblica, ma anche perché più facilmente conciliabile con il suo stile colloquiale, diretto e comunicativo: maestro dei “poeti comunicanti” l’aveva definito Mario Benedetti.
Ma il tratto più originale, più significativo e più profondo di Cardenal poeta è la riduzione al minimo del proprio io, assieme alla proiezione del singolo nella storia collettiva e infine, in questa ascesa tutta verticale, alla proiezione della storia di un singolo paese – e per lui si tratta soprattutto del suo Nicaragua – nella dimensione cosmica. Nel Canto Cosmico, l’opera che lui ritiene fondamentale fra le sue , l’origine del universo e la storia del popolo nicaraguese s’intrecciano, il disegno divino e il destino della sua gente formano un’unità. E al di là delle precise nozioni scientifiche – che il poeta chiama costantemente in causa a sostegno della sua lirica -, al di là delle storie raccontate, spesso tragiche, come quella dell’indimenticabile Laureano Mairena, “figlio e fratello”, sub-comandante della rivoluzione sandinista, quello che rimane al lettore che sappia abbandonarsi alla magia del suo dettato è l’insegnamento, insolito al giorno d’oggi, e la speranza, rara e sublime, della trascendenza. Il Dio che ci crea e che ci attende, nostra origine e nostra ultima sede, dalla singolarità mutila e sofferente al tutto universale plurimo e gioioso, è un Dio che scopriamo nel profondo della nostra intimità e che ci comunica e riunisce con la diversità e la pluralità. Dio è uno e plurale, come l’universo, che forse – ci insegna Cardenal – dovremmo chiamare “pluriverso”. Ecco la sua lezione ultima, condensata in questi versi tratti dal suo ultimo libro, Versos del pluriverso:
Evoluzione e trascendenza:
Non c’è differenza.
Il cosmo un processo non ancora finito
e la vita un intermezzo in quel processo.
Una terra che anela a unirsi con il cielo
e un Dio che non è soltanto funzioni ontologiche.
Dal Big Bang fino al Regno dei Cieli.
Ernesto Cardenal ” Nicaragua Mondo Universo “, antologia poetica- 246 pagine, 20 Euro
Martha CANFIELD, poeta e traduttrice, è professore ordinario di Lingua e Letteratura Ispanoamericana presso l'Università degli Studi di Firenze, scrive in spagnolo e in italiano. Ha curato in italiano molte opere di autori ispanoamericani, tra cui M. Benedetti, J. E. Eielson, A. Mutis, e in spagnolo autori italiani quali Pasolini, Sanguineti, Bufalino. Più volte premiata per la sua opera poetica e per il lavoro di diffusione della letteratura ispanoamericana (dirige le collane “Latinoamericana” della Casa Editrice Le Lettere di Firenze e “Doppiofondo” di Ponte Sisto di Roma), è consulente per la poesia italiana del Festival Internazionale di Poesia di Medellín (Colombia) e presidente del Centro Studi Jorge Eielson di Firenze.