Prima che i mistificatori di ogni ordine e grado, di ogni fattura e statura, decidano di (ri)scrivere a loro abuso e consumo la storia delle primarie italiane, è necessario fissare alcuni paletti che nessuno, tanto meno i politici più scafati nell’arte antica della manipolazione, possa superare o scansare. Le elezioni primarie fioriscono in Italia per due motivi: uno, per la sempre più scadente qualità della nostra classe politica e, due, per rispondere alle esigenze di legittimazione di leader senza partito o di partiti senza ormai più nessuna capacità di esprimere una leadership quantomeno decente. Sono perciò uno strumento. I cittadini le chiedono perché vogliono tornare a scegliersi i loro rappresentanti, soprattutto in quei casi (tanti e sempre troppi) in cui candidati vengono paracadutati dall’alto in luoghi che non conoscono e non hanno alcuna intenzione di tornare a frequentare in futuro. Le primarie diventano poi una legittima pretesa da parte degli elettori nel momento stesso in cui un odontoiatra padano alla ricerca dei suoi “quindici minuti di notorietà” decide, complice una minoranza silenziosa di eterni dirigenti di partito dal seguito elettorale sempre più evanescente, di proporre una legge elettorale truffa e porcata. Col Porcellum i cittadini delegano in bianco la loro rappresentanza a partiti vuoti, oramai alleggeriti da qualsiasi zavorra ideologica così da poter “correre da soli”, serenamente e pacatamente, verso un traguardo imprecisato e indefinito (“Go Forrest, go!”).
Anche i partiti, almeno inizialmente, sembrano appassionarsi allo strumento delle primarie, soprattutto quando si tratta di votazioni che ratificano decisioni precotte, cioè contrattate tra pochi politici di (una sola) professione in cerca di sostegni reciproci o reciproche desistenze in grado di mantenere intatti i lori incarichi. Finché il voto degli elettori rimaneva un’eco, le primarie rappresentavano “un grande esercizio di democrazia”, ma quando i cittadini hanno incominciato ad agire autonomamente e la competizione fra i candidati si è fatta autentica, le primarie si sono subito trasformate in un problema bisognoso di una “aggiustatina” (Bersani dixit). Anzi, per un politico di lungo corso come Massimo D’Alema (in Parlamento da sei legislature, quasi venticinque anni, praticamente una vita…) si può benissimo fare a meno delle primarie se l’obiettivo è quello, nobilissimo, di vincere le “secondarie”, vale a dire le elezioni vere, quelle che contano. Absit iniuria verbis: non sembra essere D’Alema l’uomo giusto per insegnare alla sinistra, in senso lato e ampio, come vincere le “secondarie” e non mi riesce proprio di ricordare una vittoria elettorale limpida, chiara, duratura di uno dei partiti di cui l’onorevole D’Alema è stato, nel tempo, dirigente e rappresentante.
Senza scadere nel gergo rude dei “rottamatori”, è comunque necessario cercare altro: altre soluzioni, altre idee, altre persone. Naturalmente, non è nel modo pittoresco e cinematografico con cui il Partito Democratico ha scelto i suoi parlamentari nel 2008 che si può avviare un percorso di rinnovamento vero della classe politica italiana. Piuttosto, quella è la strada più breve per mettere in scena lo spettacolo che abbiamo visto all’opera in occasione del voto di fiducia al governo Berlusconi lo scorso 14 dicembre, quando alcuni eletti (rectius: nominati) nella fila del centro-sinistra hanno finito per appoggiare il governo guidato dal “principale esponente dello schieramento a loro (un tempo!) avverso”. Per inciso, quella, se dovesse ripetersi, è anche la via più breve per ri-perdere anche le prossime elezioni politiche. Invece di calare dall’alto sulle teste pensanti e nauseate dei loro elettori fantasiose ipotesi di alleanze, i partiti di centrosinistra dovrebbero cominciare a ricostruire un’alleanza con la e nella società, fra tutti quei gruppi sociali che non si riconoscono più o non si sono mai riconosciuti nella variante populista della rappresentanza offerta dal centrodestra berlusconiano. È qui che le primarie potrebbero avere ancora un senso e un ruolo, a patto che i dirigenti dei partiti si convincano che esse non sono soltanto uno strumento tecnico manipolabile a piacimento per risolvere le loro radicate risse interne. Le elezioni primarie, a cominciare da quelle per i parlamentari, possono svolgere un ruolo politico importante se fatte con cognizione di causa, ovvero con l’obiettivo, dichiarato e progettato, di mobilitare il maggior numero di persone, creando le condizioni per una partecipazione incisiva degli elettori e una competizione aperta fra i candidati, e di comunicare, anche con strumenti nuovi, una modo diverso e alternativo di fare politica. Non è scritto da nessuna parte che primarie di questo genere facciano vincere le “secondarie”, ma restano pur sempre un metodo democratico e trasparente mediante il quale una coalizione di centrosinistra può arrivare preparata ed entusiasta all’appuntamento elettorale.
Pensare, invece, di tenere elezioni primarie solo per scegliere il candidato alla Presidenza del Consiglio, come suggerisce strumentalmente Vendola, è solo un altro esempio di come in Italia non si intenda affatto prendere sul serio il tema delle primarie (e del rinnovamento della classe politica ad esso connesso). Non si capisce perché le primarie vadano bene per selezionare un candidato premier o un candidato governatore (ad esempio, uno a caso, della Regione Puglia), ma diventino armi pericolose appena si applicano ai parlamentari. Insomma, non è con una tattica di così corto respiro che si possono raggiungere obiettivi strategici lontani e impegnativi. Gli elettori di centrosinistra chiedono e meritano di più. Come minimo, pretendono che non gli si racconti la trita storiella secondo la quale essi sarebbero, per cultura politica, inadeguati alle primarie. È vero esattamente l’opposto: sono i partiti, questi nostri partiti guidati dai loro inamovibili dirigenti, ad essere ancora profondamente inadatti e impermeabili a qualsiasi metodo trasparente e democratico di fare politica. Le elezioni primarie sono uno di questi metodi.
marco.valbruzzi@gmail.com
Marco Valbruzzi è ricercatore presso l'Università di Bologna. Autore del libro "Primarie. Partecipazione e leadership" (Bononia University Press, 2005). Ha curato il saggio "Il partito democratico di Bersani" (Bup, 2010) insieme a Gianfranco Pasquino e Fulvio Venturino.