Vittorio BELLAVITE – Milano chiede al Papa di poter scegliere il suo cardinale
02-12-2010Aspettare in silenzio il successore di Tettamanzi che a marzo va in pensione? Il documento “rivoluzionario” di Noi siamo Chiesa chiede a Benedetto XVI di ascoltare le comunità lombarde sul nome del dell’arcivescovo più vicino al popolo che devoto alle gerarchie. In fondo Sant’Ambrogio era stato eletto dalla gente. La conclusione nel prossimo mese di marzo del ministero episcopale del nostro arcivescovo cardinale Dionigi Tettamanzi pone il problema della sua successione. È una grande questione ecclesiale e anche civile. All’inizio del terzo millennio la situazione interna ed internazionale è oggettivamente difficile e la Chiesa è alla vigilia di inevitabili cambiamenti. La città di Milano poi è al centro delle contraddizioni politiche e sociali del paese.
Cosa fare? Aspettare che il Papa, con una cerchia molto ristretta di suoi collaboratori, decida senza veri interlocutori ed intanto partecipare al chiacchiericcio, anche legittimo, diffuso nella Chiesa ambrosiana in questi tempi sul possibile successore? Oppure affrontare uno dei problemi di fondo della Chiesa cattolica che è quello della nomina dei suoi vescovi?
Il movimento “Noi Siamo Chiesa” nel primo dei cinque punti del suo documento fondativo del 1995 “Appello dal popolo di Dio” aveva posto la necessità del “reale coinvolgimento di ogni Chiesa locale (Diocesi) nella scelta del proprio Vescovo” richiamandosi all’antico principio canonistico contenuto nel Decretum Gratiani: “quod omnes tangit ab omnibus tractari et approbari debet” (“ciò che interessa tutti da tutti deve essere discusso ed approvato”).
Questo coinvolgimento del popolo di Dio nella scelta del Vescovo non deve essere-dice l’Appello- un atto isolato all’interno di una struttura fortemente gerarchica, ma la “conseguenza dell’istituzione di strutture di comunicazione e di dialogo permanenti, a livello diocesano, nazionale ed internazionale dove le varie componenti del popolo di Dio, senza preclusioni, possano discernere, in libertà ed in ascolto della parola del Signore, tutti i problemi che riguardano la Chiesa”. Quindi ci sembra giusto riproporre alcune delle riflessioni che già facemmo quando, nel 2002, diede le dimissioni il Card. Martini. I problemi, da allora, non sono molto cambiati. Il metodo della nomina è poi rimasto identico.
Il sistema attuale
Il sistema attualmente in vigore è relativamente recente nella storia della Chiesa. La formalizzazione dell’esclusivo potere di nomina dei vescovi da parte del Papa (“eos libere nominat Romanus Pontifex”) è avvenuto con il Codice di diritto canonico del 1917. Una norma così tassativa non era mai esistita in passato; essa è la estrema conseguenza dell’orientamento prevalso nel 1870 al Concilio Vaticano I.
L’ecclesiologia del Concilio Vaticano II non ha affrontato direttamente il problema della nomina dei Vescovi o, meglio, si è limitato a sottolineare la necessità che l’autorità civile non interferisca. Ha lasciato aperto il problema della partecipazione del laicato e del clero alla designazione. Però l’affermazione conciliare di una Chiesa carismatica, prima di tutto popolo di Dio, organizzata in modo orizzontale prima che verticale, apriva la strada a una riconsiderazione della situazione. L’orientamento prevalso a Roma ha “congelato” la situazione precedente e quindi in direzione diversa, se non opposta, allo spirito dell’ultimo Concilio.
Eppure, negli anni ’70 vi furono tentativi per avviare una prassi di partecipazione nella nomina dei Vescovi ma non ebbero successo. Troppe nomine portarono a frustrazioni e a delusioni nei confronti della Chiesa. Valga per tutte la vicenda delle nomine nella Chiesa olandese in quella tedesca ( ed in quella svizzea). Recentemente altre designazioni hanno suscitato scandalo, anche costringendo a retromarce (per esempio quelle per la diocesi di Varsavia e di Linz) e, in generale, l’orientamento unilaterale di segno conservatore dei due ultimi pontefici su questa questione, ha contribuito a suscitare in molte diocesi tensioni e cadute di credibilità nei confronti della Chiesa. Dove la coscienza ecclesiale è più vigile e diffusa “le conseguenze di queste nomine sono catastrofiche: la fiducia nella Chiesa di molti fedeli si sente ancora una volta defraudata; nella Chiesa, proprio tra i cattolici più attivi, aumenta il malessere. La Chiesa universale si sente ferita”. Altri numerosi casi si potrebbero citare in particolare relativi all’America latina (tra questi quello dell’Arcivescovo di Lima) dove la teologia della liberazione è stata ostacolata ricorrendo spesso a nomine ad essa ostili.
Il sistema gestito in modo autoritario attraverso i nunzi apostolici favorisce il conformismo. La selezione molto spesso avviene favorendo i candidati più fedeli a Roma dal punto di vista disciplinare e dottrinale e non quelli più pastoralmente capaci, in sintonia con l’ispirazione conciliare e partecipi della cultura e della realtà ecclesiale locale. A questo scopo è predisposta la procedura di selezione mediante più che discutibili questionari da compilare sotto segreto da parte di personale ecclesiastico del quale non si conoscono i criteri di selezione. Il Card. Martini nell’ intervento al Sinodo dei Vescovi del 2001 ha posto esplicitamente il problema con parole inequivoche. Sono fatti ben noti. Nel sinodo del 2001, convocato proprio sul ruolo del vescovo (“Il vescovo servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo”) il problema del rapporto tra le Chiese locali e Roma è stato il tema dominante, le tensioni sono state forti ma tutto è rimasto fermo. Il problema della nomina dei Vescovi è connesso a quello della struttura gerarchica e non comunitaria della Chiesa cattolica.
I militi della decisione individuale
Ci saremmo aspettati che il citato Sinodo, tra i tanti problemi relativi alla figura del Vescovo, affrontasse anche quello della sua nomina. Pare invece che l’argomento sia stato trascurato. Nulla si dice nel documento preparatorio (il c.d. Instrumentum laboris); poco pare sia stato detto durante il dibattito ) (almeno dalle scarse notizie trapelate), nulla si dice nel Messaggio finale, nulla nelle “Propositiones” indirizzate al Papa e nella lunghissima Esortazione postsinodale Pastores gregis.
Questo imbarazzante silenzio del Sinodo, in cui pure si sono ripetuti vivaci contrasti sul rapporto tra Chiese locali e Curia romana, testimonia non che il problema non esista ma che il Sinodo è uno strumento di collegialità incapace di intervenire sulla struttura della Chiesa e sulla sua riforma. La sua limitata rappresentatività e l’irrilevanza delle sue conclusioni consultive hanno portato alla convinzione, ormai largamente diffusa, che le sue sessioni servano solo come occasione di incontro tra vescovi, anche se interessante e per certi versi utile.
Dobbiamo accettare passivamente questo immobilismo? Tutto continuerà come prima nella prossima nomina del nostro nuovo vescovo? Eppure anche la storia della nostra Diocesi ci dà segnali importanti. Basti ricordare che i due patroni della Diocesi, i santi Ambrogio e Carlo, sono diventati vescovi di Milano in modi del tutto inconcepibili per il sistema ecclesiastico di oggi: S.Ambrogio è stato imposto dal popolo; S. Carlo è stato nominato vescovo della diocesi di Milano a 27 anni dallo zio papa Pio IV. Dunque si può cambiare. Nulla c’è di immutabile nella Chiesa se non la fede in Cristo.
La nomina dei vescovi: il clero, il popolo
Gli studiosi di storia della Chiesa, senza distinzioni, confermano che la designazione dei vescovi da parte della comunità dei credenti nell’evangelo è stata costante nella Chiesa per secoli. Nella nomina del Vescovo intervenivano, in forme diverse, il clero e il popolo (“clerus populusque”) e i vescovi vicini alla diocesi interessata. Solo a partire dal XIII il papato si è andato appropriando del potere di nominare direttamente i vescovi o di accettare la designazione fatta dal potere politico.
L’intervento del Papa nelle nomine ed il conflitto secolare con re o principi fa parte della storia tout court (e non solo quindi della storia della Chiesa). Adriano VI, il papa riformatore, che per primo si trovò a confrontarsi con Lutero, accolse nel 1523 tra le proposte di riforma della Chiesa quella dell’elezione dei Vescovi fatta con voto segreto e secondo coscienza (15). Questo proposito non ebbe seguito.
Al Concilio di Trento lo scontro per reintrodurre l’antica consuetudine della presenza attiva del popolo nella designazione dei vescovi fu lungo e vivace (16). La posizione episcopalista (che voleva tornare alla pratica della Chiesa antica) rimase in minoranza a causa dello “spirito dei tempi”, dominato dall’assolutismo degli stati e dal timore dei protestanti. E tuttavia il testo approvato al concilio di Trento fu più blando di quello tassativo contenuto nel Codice di diritto canonico del 1917.
Una prassi di origine apostolica che consentiva una maggiore comunione tra vescovo e popolo fu così progressivamente e completamente abbandonata. Negli ultimi secoli le deroghe alla nomina pontificia sono state tutte eccezioni in pejus, dato che il papato romano ha permesso per secoli che fossero i sovrani degli stati “cattolici” (Francia, Austria, Spagna e Portogallo e colonie) a scegliere i vescovi, limitandosi poi ad una pura ratifica. Quanto era consentito al potere civile era negato ai credenti nell’Evangelo.
Dopo il Vaticano II l’istanza comunionale rinacque anche nella elaborazione teologica e ne sono testimonianza, tra l’altro, i tanti fascicoli monografici di “Concilium” (si veda la bibliografia in appendice). Si può leggere in particolare lo studio di Hervé-Marie Legrand (19) sul rapporto tra “il vescovo che è nella Chiesa e la Chiesa che è nel suo vescovo” (secondo la formula di San Cipriano). Si tratta – egli dice – di “una ecclesiologia in cui la partecipazione di una chiesa alla scelta del vescovo appare come un’esigenza di struttura. Questa partecipazione non è una venerabile usanza tra tante altrettanto legittime. Togliere questa pietra all’edificio dell’ecclesiologia autenticamente cattolica e tradizionale significa minarlo gravemente. Quando la centralizzazione amministrativa sostituisce l’istituzione originale, allora non si realizza più un’ecclesiologia di comunione, tra le chiese ed all’interno della chiesa locale”.
Le nuove prospettive aperte dal Vaticano II e sviluppatesi anche in seguito ai numerosi dialoghi interconfessionali vanno nella direzione di un’ecclesiologia di comunione e di corresponsabilità nella gestione della comunità dei credenti.
Il progetto ultimo a cui pensiamo è quello di una organizzazione della comunità dei credenti di tipo sinodale che, ai vari livelli, preveda organismi collegiali con poteri non solo consultivi. Un vescovo eletto dal clero e dal popolo ma dotato, come ora, di ogni potere non sarebbe una soluzione soddisfacente. Riteniamo però che l’andare nella direzione di un vescovo che sia diretta espressione del popolo di Dio sia comunque un fatto innovativo in questo momento e che indichi la direzione da seguire anche per le altre riforme.
Perché non ricercare nuove strade?
Cosa impedisce ora di aprire le finestre? di ascoltare i carismi diffusi? di percorrere nuove strade? Per secoli la vita interna della chiesa è stata un’isola “democratica” in un mondo in cui il potere di Cesare era organizzato con criteri ben lontani dal clima di corresponsabilità e di fraternità che si viveva in molte comunità cristiane. Adesso la situazione si è completamente rovesciata. Inoltre non esiste praticamente più (se non forse in Cina) l’invadenza del potere civile nella nomina dei vescovi a giustificare un intervento così diretto ed esclusivo da parte di Roma per difendere la Chiesa locale dal giuridizionalismo.
Particolarmente dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la crollo dei regimi dittatoriali in America Latina si sono quasi ovunque diffusi nel mondo sistemi democratici o che comunque praticano o dicono di voler praticare elementi di democrazia. La chiesa cattolica ha invece mantenuto ed accentuato nell’ultimo secolo e mezzo un sistema accentrato ed autoritario di cui la nomina dei vescovi è solo un aspetto (il controllo si estende sui seminari e le università, sulla ricerca teologica, sulla liturgia, sul clero eccetera).
Così Giuseppe Alberigo stigmatizzava la situazione: “Appare sconcertante che l’affermazione della democrazia politica in luogo dei sistemi autocratici nelle aree dove il cattolicesimo era presente non abbia indotto il pontificato romano ad adeguamenti, come era avvenuto in occasione di altri precedenti grandi mutamenti culturali. Almeno sino agli anni quaranta del XX secolo si assiste ad una aspra polemica nei confronti del metodo democratico, frequentemente confuso con la secolarizzazione. Anzi nei confronti di qualsiasi ipotesi di democratizzazione della Chiesa si oppone un intransigente appello al “diritto divino” della struttura ecclesiastica”…. Nella chiesa esistono da tempo collaudati sistemi di autogoverno. Riteniamo che esistano i presupposti di ordine dottrinale e pastorale perché si pensi finalmente ad una strada diversa per la struttura S.Sede-diocesi-parrocchia e che sia necessario iniziare a percorrerla fin da oggi. Bisogna rimuovere il clima di silenzio, di attesa e di accettazione passiva della situazione che caratterizza quella parte della Chiesa che, dopo il Concilio, si è proposta di seguire il Cristo, oltre che con la preghiera e le opere, anche con la testimonianza del modo di essere e di organizzare la comunità di credenti.
Chiedere una responsabilizzazione del popolo di Dio della Diocesi di Milano nella scelta del nuovo vescovo sarebbe, a nostro giudizio, poca cosa se essa si limitasse ad una qualche consultazione dei due Consigli diocesani, quello presbiterale e quello diocesano perché indichino l’identikit del nuovo vescovo. Ci sembra che la designazione del nuovo vescovo debba essere l’occasione per un bilancio, per un ripensamento, per un momento di responsabilità collettiva, per prendere atto che nella nostra Diocesi, soprattutto negli ultimi trenta anni, si sono sviluppati fenomeni culturali e sociali lontani dai valori evangelici. Essi sono : la corruzione nella gestione della cosa pubblica; l’indifferenza diffusa rispetto ai problemi della legalità; il corporativismo e l’individualismo ostile agli immigrati e ad ogni idea di solidarietà nazionale; il culto esclusivo del denaro, dell’immagine e del successo che ha, alla propria base, una concezione materialista della vita.
Grandi sono anche i problemi specifici che la Chiesa di S.Ambrogio e di S.Carlo ha di fronte: le sue eccessive dimensioni; il mediocre funzionamento degli organismi consultivi parrocchiali e diocesani (consigli pastorali); la gestione di consistenti risorse economiche (sono essi sempre coerenti con l’evangelico “gratis accepistis gratis date” di Mt 10,8 ?); la presenza di movimenti che si organizzano in modo separato e che sono diffidenti nei confronti delle normali attività parrocchiali e diocesane; la presenza del quotidiano cattolico nazionale l'”Avvenire” che ha un’unica linea politica ed ecclesiale e che ignora le diverse posizioni presenti nel mondo cattolico; l’Università Cattolica, la cui funzione di stimolo e di ricerca sulle grandi questioni della fede di fronte alla secolarizzazione, alla scienza ed ai problemi Nord-Sud ci sembra discontinua e sicuramente insufficiente; la scarsa efficacia e presenza dei cattolici democratici in politica; il conformismo sulle questioni pastorali per cui posizioni critiche e propositive sono rare; l’omiletica domenicale spesso del tutto mediocre; l’efficientismo nelle strutture e nelle attività che, in alcune parrocchie, forse è fine a sé stesso.
La nostra Diocesi però è anche ricca di tanti fermenti evangelici: i rapporti ecumenici sono positivi, l’intervento sociale di base è consistente, la meditazione diretta della parola di Dio si è diffusa, i settori del non-profit e della cooperazione internazionale sono, a maggioranza, animati da cristiani.
Gli interrogativi sono anche altri: il 47mo Sinodo diocesano conclusosi nel 1994 ha ancora una qualche importanza nella vita della Diocesi? O è passato lasciando poche tracce prevedendo tutto minuziosamente per la vita ecclesiastica nelle sue 611 Costituzioni (24) e parlando ben poco dei problemi di fondo? Perché il Sinodo tra le tante cose di cui si è occupato nulla ha detto sul ruolo della donna nella Chiesa?
Una proposta per la nostra diocesi
In attesa di soluzioni nuove e generalizzate, che “Noi Siamo Chiesa” auspica siano assunte dalla Chiesa universale nell’ambito di una riforma di tutta la sua struttura, ci sembra possibile ed auspicabile che nella diocesi si concordi un percorso ispirato al Vaticano II. L’itinerario che ipotizziamo dovrebbe essere promosso in primis dall’arcivescovo Tettamanzi con i suoi collaboratori. La nostra proposta è la seguente:
- 1) Un gruppo informale di lavoro coordinato dall’arcivescovo e composto da un limitato e paritetico numero di rappresentanti del Consiglio presbiterale diocesano e del Consiglio pastorale diocesano dovrebbe elaborare un testo che indichi, anche presentando diverse opzioni, le questioni che si pongono nel momento della designazione del nuovo vescovo, soprattutto quelle relative al suo profilo ed ai principali problemi della diocesi. Questo gruppo esprima la sua opinione se, nella consultazione di cui al punto successivo, debbano essere anche discussi ed indicati dei nomi di candidati.
- 2) Successivamente, il Consiglio pastorale, il Consiglio presbiterale e tutti i Consigli pastorali parrocchiali che lo vogliano esprimano le proprie opinioni sul testo proposto mediante appositi incontri ed anche esprimendo opzioni diverse. Ugualmente associazioni, istituti di vita consacrata, movimenti di base, grandi o piccoli, oltre che singoli fedeli potranno fare pervenire le loro opinioni. Un significato particolare dovranno avere i punti di vista e gli auspici che siano espressi dalle altre chiese cristiane La consultazione interna alla Chiesa potrà essere arricchita dalle opinioni che si manifestino, anche sollecitate, da parte di quelle realtà della società civile che si sentano coinvolte nelle problematiche religiose e della presenza, anche sociale, della Chiesa a Milano.
- 3) Il gruppo di lavoro presieduto dall’arcivescovo raccolga la consultazione fatta in un testo conclusivo, anche esprimendo opzioni diverse, sulla base del quale l’Arcivescovo interloquirà con i vescovi della Conferenza Episcopale Lombarda e poi direttamente con il Papa per la nomina del nuovo Arcivescovo. Questo è il momento in cui si possono indicare dei nomi raccolti durante la consultazione…. Ogni ostacolo dovrebbe essere superato di fronte all’urgenza di voler essere più fedeli all’Evangelo ed allo spirito che animava la chiesa dei primi secoli. Se di ciò si è convinti non dovrebbe mancare il coraggio di innovare dando un segnale a partire dalla diocesi più grande della Chiesa cattolica e che potrebbe così caratterizzarsi non solo per la sua liturgia e le sue tradizioni ma anche perché cerca di affrontare problemi che sono di fronte a tutta la cattolicità.
Vittorio Bellavite è il coordinatore nazionale di Noi siamo Chiesa