Devo questa recensione a un pezzo importante della mia gioventù e a Roberto Calabrò e Lucrezia De Palma, che ne hanno reso possibile il riaffiorare (quasi) inatteso; il primo confezionando un ottimo libro, la seconda inviandomelo, per amicizia e fedeltà, in omaggio, nonostante io non sia mai stato, ai suoi avvertiti occhi di responsabile di uffici stampa, uno specialista di musica.
Già. Che titoli ha, Curreri, per parlare di Eighties Colours. Garage, beat e psichedelia nell’Italia degli anni Ottanta? Che titoli ha un docente di lingua e letteratura italiana all’estero per dar conto di un libro così particolare?
A prima vista, nessuno. Di fatto, tantissimi. Per uno del ’66, che non faceva parte degli yuppies, dei paninari, della “Milano da bere”, della “Torino bene” e tant’altro, non è stato difficile entrare in contatto con quella “cultura altra” – non parlerei, specie per gli inizi, di controcultura – che il volume di Calabrò presenta nel suo aspetto forse più creativo e originale, in seno a una ricostruzione che mixa l'”oralità” delle testimonianze con la “filologia” della discografia e delle fanzines (cui è dedicata un’interessante appendice).
E oggi, quella “cultura altra” mi affascina doppiamente, per averne fatto parte e per gli stimoli che sa ancora trasmettere a una sorta di mio doppio birichino e grassoccio: una specie di storico della cultura che da un paio di giorni non fa che tirar giù da scaffali un centinaio di vinili dalle copertine in stretto stile garage-beat-psichedelico, con i quali ha fatto ballare, nella seconda metà degli anni Ottanta, un bel po’ di bella gente, in alcuni locali torinesi veramente underground: l’Evergreen di via Sacchi su tutti, vicino a Porta Nuova, alla stazione, in una favorevole zona d’ombra, dove le serate della Psycho-Boom-Band, con Lele Roma, Mauro e il sottoscritto, dal 1986 al 1988, sono state un buon viatico per altre esperienze. Sono stati anni d’intense amicizie, con Luisa Tomasi e altri amici dello Studio 2, dove passarono molti gruppi garage-beat-psichedelici nostrani e non, come al Big, dove lavorava (a me sembrava che fosse lì da sempre) Paolo “Mixo” Damasio, che Roberto Calabrò (del 1971) ringrazia, insieme a molti altri protagonisti, ricordandolo nel volume per l’esperienza dei Difference.
Ecco, quello che nel volume, dettagliatissimo e pieno zeppo di fotografie e locandine fantastiche, manca un po’, è la vita, la vita dei locali, dei concerti, i d.j., il pubblico, gli spettatori, che sono quelli che hanno reso possibile un vero “fenomeno”, comprando i dischi, programmandoli (Radio Flash, Radio Torino Popolare… e in tante altre radio e in tutta Italia), facendoli girare in sala, usandoli, per l’appunto, per far ballare, far muovere la gente.
Mi correggo subito. Di concerti e di certi locali, si parla, eccome, e si parla anche e soprattutto delle grandi performances di alcuni gruppi dal vivo (i Sick Rose e i Not Moving, certo, ma anche i Double Deck Five e gli Avvoltoi e tant’altri ancora). Spesso si dice, e giustamente, che l’approdo al vinile (45, EP e, soprattutto, LP) non rende che una parte della carica e della ricerca di questi gruppi. Di più. Spesso, tale approdo è tardo. Se il beat degli Avvoltoi fa centro, uscendo nel momento giusto anche a 33 giri, il suono di tanti altri gruppi dall’impronta garage-psichedelica, spesso dall’attività concertistica impressionante, in Italia e in Europa, stenta ad arrivare in sala d’incisione. Gli “album tardi” – magari con altre formazioni e verso altre sonorità (i Double Deck Five, per esempio) – diventano quasi una categoria e, al tempo stesso, un paradigma della difficoltà di percer, sfondare, di molte di queste avventure culturali, destinate ad essere “marginali” ma a trovare proprio nel “margine” la loro forza: forza e non longevità, un po’ come per tanti gruppi della first psychedelic era della seconda metà degli anni ’60, cui i Nostri, vent’anni dopo, si richiamano (che so, Count Five, The Thirteenth Floor Elevators, Chocolate Watch Band, Remains, Sonics…).
Un quarto di secolo dopo, mi viene da dar ragione alla buon’anima di Paolo Andreotti, che Dio l’abbia in gloria, il proprietario di Non Stop Music di via Stradella. Mi diceva sempre: “Tu sei nato tardi”.
In effetti, nei locali, era un po’ quella l’aria che si respirava, di essere in ritardo rispetto a una realtà sempre più fatta di compartimenti stagni: la “cultura altra” del garage-beat, della psichedelia voleva tagliare fuori, con un salto nel passato, una serie di rese monolitiche del nostro presente, dalla cultura ufficiale alla controcultura. In pochi anni, tutto era stato triturato, il “morire di musica” dei grandi miti (Janis, Jimi e Jim) – nel “canto del cigno” della Savelli – ma anche il punk, la new wave, di cui si erano quasi subito appropriati i “fighetti”, anche per tradurla in merda, via i Duran Duran (una sorta di Japan da classifica).
All’inizio, allora, gli Eighties Colours sono tutta un’apertura, anche a livello politico: uno col caschetto non disdegnava di accompagnarsi a uno skin, un dark a un mod, un beat a un punk (a me è capitato di mettere qualche disco insieme a Zazzo, dei Negazione, di partecipare a serate con gli Statuto, di andare allo Slego con degli amici skin o all’Aleph con dei dark a sentire i CCCP). Questa apertura non significa, come è stato spesso detto, confusione, né significa che chi entrasse in questo “giro” fosse depoliticizzato, ingenuo, e che potesse scambiare un nazista per un pacifista e viceversa. Il dialogo di quegli anni, per me, è stato importante, per esempio, per finire l’università, un posto dove il dialogo è bandito quasi sempre (non sto sputando nel piatto in cui mangio, sto solo cercando di far cambiare il menu!). Del resto, la vera apertura alla differenza di quegli anni, più superficialmente, passa anche per il look. Certo, Calabrò – o Coniglio – fa bene a mettere in copertina una foto di Luca Losi dei Pikes in Panic che sembra uscita da un album dei Sixties, ma poi pare davvero che il volume, più volte, lo voglia “contraddire”, tante sono le immagini diverse (e, come dire, “normali”) che sfilano all’interno. A parte, forse, i principianti, la gente del “giro” non camminava sulle uova. In molti si era diplomati e laureati ma si prestava attenzione a tutti, a partire dall’uomo della strada, dall’operaio, dal contadino. Quante feste, in Emilia (paranoica magari, ma bellissima, come la Ninfa degli Avvoltoi), in casolari dispersi dove si ballava un beat italiano e lo si “mixava” con un rock’n’roll in dialetto o un Casadei; quante immagini, nel libro di Calabrò, con i gruppi garage-beat sullo sfondo di campagne e casolari. Quanta voglia di uscire dai garages, isolati con le confezioni delle uova, per correre nel mondo, per incontrare gente, senza il cinismo di un Moretti, senza l’autarchia dell’uomo solo, del movimento, della più triste ideologia.
All’inizio, ma alla fine fu diverso. Gli ultimi fuochi e il nuovo decennio videro molti “rientrare” o “perdersi”, per vari motivi. Spesso, ho sentito accusare l’esterno, il sistema (discografico in primis), ma una delle pecche forti minava lo splendido lustro della seconda metà degli anni Ottanta dall’interno. La “cultura altra” che tutti questi ragazzi avevano contribuito a creare, muovendo al di là dei cavalli di Frisia della società italiana prodotta dal Pentapartito, si andava esaurendo in seno a un’alternativa fatta di chiusure: circuiti dei centri sociali o promozioni rare di uno show business televisivo e radiofonico che si stava allargando. Da un lato iniziava a riprofilarsi la lotta, anche cattiva, che è contrapposizione, esclusione (un esempio, sempre dalla specola conoscitiva di Torino: per entrare a una serata, a El Paso, bisognava essere conosciuti, quasi avere la tessera, un po’ come nel giro delle discoteche bene); dall’altro emergeva il mito pragmatico degli anni Novanta, quello di costruirsi una vita alternativa ma integrata, magari anche a spese degli altri (del gruppo, più o meno esteso, di cui tu stesso avevi fatto parte fino all’anno prima). Oggi si tende a dire che questa mutazione, che è stata la fine di un sogno per molti (anche per mio padre socialista, per esempio, e per suo figlio capellone), sia addebitabile a un uomo solo. Io non ci credo. Certo, non assolvo nessuno, a partire dal sottoscritto, che vivendo ancora (e a lungo, si spera), si contaminerà ancora con la vita, con la sua urgenza espressiva, il suo fascino multicolore, che il garage-beat e la psichedelia italiani dei miei vent’anni – mixati con tante letture e tanti chilometri – mi hanno fatto apprezzare in modo sorprendentemente vitale.
Luciano Curreri, nato a Torino nel 1966, è ordinario di Lingua e letteratura italiana all'università di Liegi. Tra i suoi lavori più recenti, citiamo "Pinocchio in camicia nera" (Nerosubianco 2008, II ed. corretta e aumentata 2011); "D'Annunzio come personaggio nell'immaginario italiano ed europeo (1938-2008). Una mappa" (Peter Lang 2008); "Mariposas de Madrid. Los narradores italianos y la guerra civil española" (Prensas Universitarias de Zaragoza 2009; ed. or. Bulzoni 2007); "Un po' prima della fine? Ultimi romanzi di Salgari tra novità e ripetizione" (1908-1915) (con F. Foni, Sossella 2009); "L'elmo e la rivolta. Modernità e surplus mitico di Scipioni e Spartachi" (con G. Palumbo, Comma22 2011).