Azzurra CARPO – Italiani come noi. Nati qui, a scuola con i nostri figli: solo il sangue vecchio delle leghe respinge la loro giovinezza
24-11-2011La pubblicità della Nutella è molto moderna. Assolutamente trendy: compaiono incantevoli bambini e adolescenti mulatti, assieme ai loro compagni bianchi, addentando la fetta di pane toscano profumata di crema alla nocciola. Ecco l’Italia del nostro quotidiano multiculturale. Fino a che l’attuale legge sulla cittadinanza rimarrà invariata, però, la pubblicità potrà solo flirtare con l’estetismo di “note di colore” in quanto le schermaglie della casta politica hanno finora strozzato il dibattito circa una effettiva parità giuridica tra i ragazzi che frequentano la nostra scuola, e ancora non hanno dato una nuova legge di cittadinanza ai figli degli immigrati, nati in Italia o arrivati quando erano molto piccoli.
Parliamo di più di mezzo milione di minorenni. I quali, stanchi di essere definiti dall’esterno, chiariscono chi sono: “Non siamo immigrati, non veniamo da un altro paese, non abbiamo attraversato frontiere, siamo qui dall’inizio della nostra vita, ci sentiamo italiani, con tutti i diritti e doveri di ogni cittadino di questo paese”.
Il limbo dell’estraneità e le campagne nazionali
Finora, la legge ha destinato loro un limbo burocratico-amministrativo per il quale ereditano lo status di “stranieri” dei genitori. La legge 91/1992, infatti, stabilisce che acquistano automaticamente alla nascita la cittadinanza italiana solo coloro i cui genitori (anche soltanto il padre o la madre) siano cittadini italiani, in base al principio dello jus sanguinis: dove si nasce non conta.
Secondo questa legge, coloro che nascono in Italia da genitori stranieri possono richiedere la cittadinanza italiana al compimento del 18° anno di età, a patto di dimostrare di aver risieduto ininterrottamente in Italia dalla nascita, e che i loro genitori abbiano provveduto a registrarli come residenti immediatamente dopo essere nati. La stessa legge dice che possono acquistare la cittadinanza italiana coloro che risiedono in Italia da almeno 10 anni dimostrando di avere i requisiti di reddito (che restano discrezionali, ma di fatto applicati in molti casi) e di regolarità della residenza. Fatto salvo il diritto dei figli dei cittadini italiani ad acquisire la cittadinanza dalla nascita, le altre modalità di acquisizione descritte sono soggette a una qualche forma di valutazione discrezionale di opportunità da parte della pubblica amministrazione circa l’avvenuta integrazione dello straniero in Italia.
Al compimento dei 18 anni molti dei ragazzi nati nel nostro territorio sono costretti a districarsi tra un permesso di soggiorno per studio o per lavoro, dipendono da decreti attuativi e circolari. Sono obbligati, volenti o nolenti, a sentirsi “stranieri in patria”. Vivono, studiano, parlano perfettamente italiano e anche i dialetti locali, si lavorano fra le mille difficoltà dovute al fatto di non possedere lo status civitatis, lo status di cittadino. Quale senso di appartenenza e´ possibile, se il paese dove nasci e cresci, non ti riconosce cittadino?
Secondo Terri Mannarini (“La cittadinanza attiva. Psicologia sociale della partecipazione pubblica”, Il Mulino), vi sono dinamiche psicologiche implicate nei processi di coinvolgimento dei cittadini in decisioni di interesse collettivo (la cosiddetta partecipazione pubblica). I figli di immigrati sanno che ai loro genitori non e´ permesso votare nemmeno alle elezioni municipali, e loro stessi sono considerati un simpatico esotismo, nonostante conducano la stessa vita dei coetanei riconosciuti italiani: quale progettualità possono costruire in questo paese, se vengono considerati “estranei”?
La politica in Italia non è certo trendy come la pubblicità: arriva sempre per ultima. L’importante, ovviamente, è che ci arrivi. Il recente, esplicito messaggio del Presidente della Repubblica Napolitano per i diritti dei “nuovi italiani” (“E’ una follia che i figli di immigrati nati in Italia non siano cittadini”) e’ manna per le decine le associazioni che lavorano da anni ad un cambio nella legge per il principio di “ius soli” (diritto di suolo), che conferisce la cittadinanza per il fatto di essere nati in Italia, indipendentemente dalla cittadinanza posseduta dai genitori. La Rete G2 (http://www.secondegenerazioni.it/), forum importante dei “figlie e figlie di immigrati”, per esempio, e´ stata fondata nel 2005. Partecipa alla campagna “L´Italia sono anch’io” (http://www.litaliasonoanchio.it/), che riunisce 19 associazioni, fra Emmaus, Caritas, Migrantes, ARCI, CGIL, Libera, Acli ed altre, e organizza una raccolta di firme a livello nazionale per sensibilizzare l’opinione pubblica e fare arrivare in Parlamento l’esigenza di modifica l’attuale legge e riconoscere il diritto di cittadinanza per jus soli, chi è nato in questo suolo, è cittadino di questo suolo, come negli Stati Uniti e in Francia e in molti altri paesi industrializzati.
La mia patria è dove sono
Il 7,5% dei residenti in Italia è costituito da cittadini di origine straniera (pari a 4.570.317 al 1 gennaio del 2011) ma se chiedi per strada allo studente che sale sulla moto o al salumiere all’angolo, è facile che ti risponda il 25%, perché l’immigrazione è un fatto recente e tumultuoso nella storia italiana e gli immigrati sono molto visibili negli spazi collettivi, come scuole, pronto soccorso, case popolari. E mass media e partiti parlano di tsunami umano a Lampedusa, usando toni apocalittici e alimentando questa paura di essere invasi, anche se il fenomeno dell’immigrazione sta rallentando, e gli indici generali di criminalità stanno scendendo. Quando venti anni fa arrivarono i primi barconi di albanesi, ci fu una vera gara di solidarietà degli “italiani brava gente”.
Nel 2008 arrivarono 36mila immigrati di cui 31mila attraverso Lampedusa, e neppure allora l’Italia affondò, mentre adesso si espellono i Rom e si parla di esodo biblico per (relativamente) poche migliaia di immigrati: un termine che sarebbe più appropriato attribuire a quello di 2 milioni e mezzo di ruandesi che per sfuggire ai massacri nel 1994 si rifugiarono in Zaire (attuale Repubblica democratica del Congo), o i 300 mila libici che si sono rifugiati in questi ultimi tempi in paesi come Egitto e Tunisia. All’emotività dei primi arrivi è seguito lo sconcerto, e la difficoltà di una società che a malapena stava digerendo l’immigrazione interna dei meridionali, ad accettare un fenomeno come parte di un altro più complesso, come la globalizzazione.
Quanto al pregiudizio che rubino lavoro agli italiani, è chiaro, secondo i dati del CENSIS, che si è avuta una parziale sostituzione di lavoratori italiani con stranieri in settori non ambiti, come gli infermieri o lavoratori manuali, come anche che una società che sta invecchiando riceve da questi nuovi cittadini effetti economici benefici in quanto a pagamento di contributi, produzione di ricchezza, e aiuto nel problema dell’assistenza ad anziani in difficoltà.
Convegno nazionale dei centri interculturali d’Italia
Ma a che punto siamo nella costruzione di una società interculturale, che superi la segregazione e il disprezzo dello straniero, o il puro e semplice assistenzialismo, e punti al riconoscimento della cittadinanza di tutti quelli che abitano un territorio, qualunque sia la loro origine? Se ne è discusso a Vicenza il 4-5 novembre, nel XIV Convegno Nazionale dei Centri Interculturali, sul tema della cittadinanza interculturale, a cui hanno partecipato 270 specialisti, amministratori, educatori ed operatori sociali, a loro volta rappresentanti e delegati di molte realtà associative e situazionali che lavorano nel campo dell’interculturalità nella scuole, nelle Usl, nei comuni e province, nei centri di culto cristiani, musulmani, ebrei.
Non a caso è stata scelta Vicenza, in quanto durante la drammatica esondazione dei fiumi locali, avvenuta un anno fa, i “nuovi vicentini”, immigrati, si sono spontaneamente affiancati ai nativi per riparare i danni verificatisi nel territorio, a riprova che il loro “senso di appartenenza” all’Italia e al Veneto, sedimentosi in anni, è diventato senso civico. Un gesto che ha avuto il riconoscimento anche di Napolitano, che quest’anno ha onorato Convegno con l’Alto Patrocinio della Presidenza della Repubblica.
Il prof. Inghilleri dell’Università di Milano, la definisce cittadinanza psicologica, in quanto si basa sulla reale “appartenenza emotiva, affettiva e cognitiva ai luoghi e gruppi”. Da canto suo, il prof. Remotti, dell’Università di Torino, sottolinea che dalla coesistenza si può arrivare alla convivenza, riconoscendo valori comuni e rispettando le differenze. E in tutto il convegno si racconta e si scambia la ricchezza di esperienze dove questo avvicinamento tra diversi, oltre che far cadere diffidenze, crea nuove realtà.
Nella scuola, dove prima ancora delle circolari e disposizioni ministeriali gli insegnanti si sono rimboccati le maniche, l’obiettivo è stato, al di là dell’insegnamento dell’italiano come seconda lingua, la creazione di occasioni di incontro e conoscenza fra i ragazzi, in momenti formali e informali di gioco, con piu’ attenzione alle complesse dinamiche di contatto, di reciprocità e sopraffazione, distanza e vicinanza, e favorire la partecipazione dei genitori. E’ chiaro a tutti che le altre culture debbano essere riconosciute, non solo in feste gastronomiche o sfilate etniche, ma attraverso la narrazione dei propri vissuti e valori. Ecco che le mamme ghanesi o filippine possono narrare fiabe nelle bibioteche milanesi di Bibliotutti, o i giovani presentarsi e raccontarsi nelle esperienze multimediali “photovoice” promosse dall’Università di Padova (http://vimeo.com/7876467), come anche a Verona, Milano e Torino. Una nuova letteratura si fa strada: non più solo quella “migrante” verso l’Italia, ma quella che descrive la convivenza, in Italia. Come lo splendido libro di Ramona Pomeranzi, “Babel Hotel”, che va a scoprire la vitalità delle relazioni in un condominio gremito di immigrati.
La scuola come laboratorio di cittadinanza e di con-cittadinanza
Le reazioni violente all’intervento di Napolitano mettono in evidenza la discrepanza tra l’importanza che la scuola assegna all’educazione alla cittadinanza e le difficoltà del nostro Paese a rispondere in maniera positiva alle domande di cittadinanza, in senso giuridico e simbolico, provenienti dai “nuovi cittadini” che hanno la percezione costante di essere al tempo stesso dentro e fuori dal cerchio della comunità in cui vivono, sentimento che si traduce in un vissuto di provvisorietà che non risulta positivo né per noi né per loro.
La specialista Graziella Favaro del Centro COME di Milano avverte che nella scuola diventata plurale è importante praticare in maniera concreta il riconoscimento delle normali differenze di tutti e di ciascuno, a partire dalla valorizzazione dei saperi, dei talenti e delle storie di ogni bambino. Occorre dare “cittadinanza” anche alle culture, alle competenze, alle espressioni artistiche e religiose. Chi ha cura e chi educa può talvolta correre il rischio di imporsi all’altro, di affermare il proprio punto di vista, di non lasciar essere l’altro. Pensare la differenza in termini di carenza e di manchevolezza genera percorsi formativi chiusi nella ripetitività, che costringono le persone a ridire parole altrui, a pensare pensieri già pensati, a rinunciare ad essere se stessi. La scuola deve articolare l’educazione interculturale nelle due dimensioni: quella cognitiva e quella relazionale-affettiva.
Per il primo aspetto, agisce sui contenuti del curricolo comune, sui saperi, le competenze e le conoscenze. Per il secondo aspetto, agisce sugli atteggiamenti e le rappresentazioni, insegna a tener conto di punti di vista diversi. a convivere nella diversità. Il presidente Napolitano sprona l’Italia a riconoscersi nella complessità culturale del suo attuale tessuto generazionale e a riconoscere i diritti dei suoi nuovi cittadini. In un momento di grave crisi economica e politica, la coesione sociale passa dalla qualità dell’educazione civica di chi ama questo “suolo”.
Specialista in cooperazione internazionale. Autrice di "Romanzo di frontiera" (Albatros, Roma 2011), magia e realtá delle donne latinoamericane alla frontiera Messico-USA; "In Amazzonia" (Milano, Feltrinelli, 2006); "La Ternura y el Poder" (Quito, Abya Yala, 2006); "Una canoa sul rio delle Amazzoni: conflitti, etnosviluppo e globalizzazione nell'Amazzonia peruviana" (Gabrielli Editore, Verona, 2002); co-autrice di "Prove di futuro" (Migrantes, Vicenza, 2010).