È piena di taniche gialle l’Africa. Sono i contenitori con i quali le donne ogni giorno fanno decine di chilometri per recarsi alla fonte più vicina a prendere l’acqua per le loro famiglie. Ogni giorno le strade e i sentieri dell’Africa sono percorse all’alba da tante donne che prima vanno ad approvvigionarsi di acqua e poi al mercato per riuscire a mettere insieme quel tanto che basta a far sopravvivere la famiglia.
L’Africa ha un volto: quello delle donne.
Sono loro che, senza far rumore, senza accampare diritti, riproducono ogni giorno il miracolo della sopravvivenza. In un continente dove è davvero difficile vivere.
Difficile innanzitutto perché gran parte di questo continente non ha le strutture e le infrastrutture necessarie per garantire la vita di tutti.
Manca l’acqua, anche se il continente africano in generale è uno dei contenti più ricchi di questa risorsa. Ma mancano i pozzi, i canali di irrigazione, le condutture, i servizi igienici. Mentre si assiste a un processo di progressiva desertificazione dovuta alle monoculture imposte dalle ex potenze coloniali: l’agricoltura è stata attrezzata e progettata non per garantire la vita dei coltivatori, ma per soddisfare l’esportazione verso i paesi ricchi.
Difficile perché non ci sono scuole e luoghi formativi sufficienti per l’alfabetizzazione. E, si sa, un gruppo umano che non abbia la possibilità di garantire la formazione e l’istruzione dei propri figli, non investe nel futuro.
Difficile perché i diritti umani spesso sono ritenuti un optional in paesi dove troppe volte la democrazia è solo una parola vuota e dove i governanti usano del paese che governano solo per i propri interessi e per gli interessi dei paesi ricchi.
Difficile perché in tante aree di questo continente sono in atto conflitti sanguinosi, le cui origini sono quasi sempre da ricercarsi non nella litigiosità delle persone, ma negli interessi delle multinazionali. Qualche tempo fa i vescovi congolesi hanno denunciato che la guerra nel Kivu (oltre cinque milioni di morti in dieci anni), altro non è che una “guerra paravento” per nascondere il traffico illecito delle risorse.
Difficile perché, come si sa, la miseria produce miseria, il degrado produce degrado, in un circolo vizioso che, soprattutto quando non si dispone di mezzi sufficienti, è quasi impossibile fermare.
Difficile perché le malattie, anche quelle curabili, diventano invincibili. Si muore ogni giorno di malaria e di aids. Ma anche di parto, di diarrea, si denutrizione.
E’ in questo contesto difficile che emerge con forza il ruolo delle donne. Si badi bene, non delle donne colte o intellettuali. Ma delle donne di casa, dei villaggi. Di quelle donne che ogni mattino si svegliano all’alba e, facendo decine di chilometri, vanno prima a prendere l’acqua poi vanno al mercato o nei campi a coltivare quel tanto che serve per nutrire i figli. Di quelle donne che si portano gelosamente sulle spalle i bambini che ancora non camminano o che stanno sedute al mercato circondate da un nugolo di figli.
Quelle donne che, ad esempio, al mercato di Cotonou, se ti manifesti amico, dopo un po’ di conversazione, ti mostrano il libro delle loro quotizzazioni nelle tontine, tenuto nascosto gelosamente sotto una piramide di scatole e di mercanzie. Sono nate così, nell’Africa occidentale, attraverso un sistema semplice di quotizzazioni, decine di migliaia di piccole imprese al femminile. Negozi di parrucchiere, sartorie, pollai o piccoli allevamenti di animali. Piccole imprese agricole o commerciali che reggono in gran parte l’economia del paese. Quell’economia che gli esperti chiamano “informale” e che regge gran parte del sistema africano. Con le donne che si mettono insieme, decidono di mettere in comune i loro risparmi, li affidano a qualcuna che inizia un’attività e che con i proventi di questa attività si industria per trovare la possibilità di restituire i soldi ricevuti: una sorta di banca povera delle donne che ha dato e sta dando grandi risultati.
Oppure le dieci mila donne di un villaggio del Burkina Faso che si sono messe in cooperativa per gestire i campi. Una gestione particolare quella delle donne, diversa da quella dei rispettivi mariti. Gli uomini sono infatti più attenti a mettere insieme un capitale che poi spesso sciupano bevendo. Le donne invece sono più legate alla vita, alla sopravvivenza, al nutrimento dei figli. Ne è nata una cooperativa al femminile dove gradualmente alla coltivazione dei campi si è aggiunta anche la trasformazione dei prodotti. Conserve o marmellate, burro di Karité, prodotti artigianali, succhi di frutta che lentamente cominciano anche a commercializzare.
O quelle donne che, in situazioni di guerra, non solo hanno preso a cuore la sopravvivenza della famiglia mentre i loro mariti erano a combattere, ma si sono assunte anche il ruolo di lottare per la pace. Le donne di Bukavu, ad esempio, che sono scese in piazza e per le strade a mammelle scoperte, gridando di non voler più allattare i figli per la guerra. O quelle stesse donne che, in altre occasioni, hanno vestito per settimane gli abiti del lutto come protesta contro la guerra.
Donne comuni, non conosciute, che non appaiono sui giornali. Donne di tutti i giorni che proprio nella normalità riescono a fare cose miracolose. Sono queste donne che, a nostro avviso, meritano il Nobel per la pace. Nel loro insieme, per la loro capacità inventiva, soprattutto per la cocciutaggine con cui continuano a perseguire la vita dentro un continente che troppo spesso sembra coltivare la morte.
Eugenio Melandri è nato a Brisighella (Ravenna) nel 1948. Diploma in teologia e laurea in sociologia. Per dieci anni direttore della rivista dei Missionari Saveriani: “Missione Oggi. Dal 1989 al 1994 parlamentare europeo, vicepresidente dell'Assemblea Paritaria CEE–ACP. Nel 1992 eletto alla Camera dei deputati, ma dopo qualche mese si dimette per non tenere il doppio mandato. Fondatore dell'Associazione Senzaconfine, per i diritti degli immigrati (1989), al termine del mandato parlamentare si dedica in maniera particolare all'Africa fondando con altri amici “Chiama l'Africa”. Da dieci anni circa dirige la rivista “Solidarietà internazionale” del Coordinamento iniziative popolari di solidarietà internazionale (CIPSI). Scrive per giornali e riviste, anche internazionali. È stato assessore alla Cultura, alle politiche giovanili e alla solidarietà internazionale nel comune di Genzano (Roma).