Richieste di aiuto, proteste, idee, critiche, affannose ricerche di valori. In accordo con il concetto di “verità effettuale” di cui parla Machiavelli, in ogni ambito lavorativo e anche di protesta, è necessario tener presente che se abbandoniamo tutto ciò che si fa per ciò che si dovrebbe fare non preserviamo il nostro interesse, ma lo mandiamo in rovina. Questo non deve essere però un invito a ritirarsi dalla collettività e a vivere isolatamente nel proprio egoismo individualistico. Infatti, attenendosi sempre al pensiero di Machiavelli, la verità per l’uomo è l’agire politico e perciò pubblico, non quello privato. Anche Hannah Arendt riconosceva nella sfera pubblica una ricchezza in più rispetto a quella privata, legata alla necessità, al puro bisogno fisico di sussistenza. Lei sosteneva che la vera libertà risiede nell'”esse inter homines” e nella pluralità, condizione dell’esistenza di azione e discorso.
Ma da chi è composta la sfera pubblica? Già dall’epoca classica, grandi autori come Catone e Cicerone proiettavano la vita dell’individuo nell’interesse della collettività e promuovevano, il primo i “negotia”, il secondo gli “otia cum dignitate”, finalizzati cioè alla “salus communis”. Nel De Republica Cicerone definisce lo Stato come un’aggregazione fondata sul consenso della moltitudine e sull’interesse comune. Certo è che, come sostiene Arendt, gli uomini non sono tutto uguali. Anche nell’antica Grecia, l’uguaglianza esisteva tra pari e contemporaneamente all’intento di “aristeùein”, di far valere cioè la propria virtù.
Oggi, il tentativo di rappresentare gli interessi della maggioranza, secondo regole statistiche, rischia di sfociare in un triste conformismo, nel quale l’individuo prevale più come essere pubblico che politico e nel quale tanto più numerose sono le persone prese in considerazione, tanto minore è il rilievo delle “deviazioni”. L’individuo non deve perciò scomparire nella sfera pubblica. Ricordiamo che, come la stessa Arendt sostiene in “Vita Activa”, la sfera pubblica esiste come comunanza dell’interesse privato; quella parte del mondo che è privata, in quanto si distingue da ciò che ha la massima visibilità, è necessaria per ogni individuo e l’atto stesso di abbandonarla per dedicarsi all’azione, è un atto di grande coraggio. È bene perciò informarsi e documentarsi individualmente ancora prima che nella collettività, che rimane un’importantissima dimensione, dal momento che è costituita da esseri pensanti e quindi anche da mentalità aperte.
Il “cogito ergo sum” di Cartesio deriva dal “dubito ergo sum”; Cartesio invitava a non guardare l’universo da un punto di vista fisso, esterno. L’unica certezza che abbiamo è quella di dubitare ed è proprio dal dubbio che parte la certezza dell’essere. Un uomo è, in quanto dubita. Riguardo ai nostri tempi mi viene da credere che il pensiero sorga proprio dal dubbio, dalla capacità di mettersi in discussione e di accettare che, non esistendo un’informazione oggettiva se non la realtà stessa, ed essendo quest’ultima di difficile comprensione per un uomo solo, non con semplicità potremo giungere ad una risposta certa alle nostre domande. La dimensione collettiva è perciò necessaria, ma ognuno di noi, per dare un vero contributo, deve avere una mente autonoma, aperta, personale.
Questo è quanto mi è venuto in mente, pensando a un modo di sfruttare, nella realtà di tutti i giorni, nella mia esperienza di vita, ciò che ho sempre studiato come pura informazione scolastica. In questo periodo ho riflettuto su quanto sta avvenendo nel nostro Paese, ho ascoltato con interesse le lezioni in classe e ho cercato alcune informazioni in merito ai nuovi decreti legge. Mi sono guardata intorno durante l’occupazione e le votazioni che sono state fatte; ho ascoltato i miei compagni e le loro ragioni. Credo di aver compreso una cosa, che va al di là della politica italiana e dell’attuale riforma dell’istruzione. Credo di aver capito che c’è una grande richiesta d’aiuto. Non penso che sia giusto classificare chi arriva ad occupare una scuola, solo come un “nulla facente” che ha voglia di farsi una vacanza. Non metto certo in dubbio che ci siano tali persone né che il divertente lato della festa non sfiori anche solo per un attimo la mente di uno studente; è umano, è così quasi per tutti! Non è questo però che mi fa pensare.
Al di là di qualche atto di violenza o di parole brutte e offensive che non condivido e anzi critico duramente, ho cercato di vedere cosa c’era dietro quelle persone che affermavano di voler fare qualcosa, di voler urlare all’Italia intera il loro dissenso. A volte, nella confusione degli applausi, ho sentito anch’io salirmi l’adrenalina e mi è venuto quasi un istintivo bisogno di dire qualcosa, di far sentire la mia voce agli altri. Ma mi sono resa conto che il bisogno di essere ascoltati esula da ogni idea politica, non fa capo alle istituzioni, a qualcosa che ci riguarda così tanto ma che ci è anche lontano, soprattutto a quest’età, quando possiamo appena cominciare a farci una nostra idea fondata, al di là dell’influenza dei genitori e del mondo che ci circonda. Mi sono resa conto che è facile sentirsi soli in un mondo nel quale la scuola è diventata per tutti, o quasi, uno stress, un’ansia, un’angoscia continua o semplicemente noia. Ciò che ora è il dovere per antonomasia, paradossalmente era chiamato “tempo libero” dagli antichi, a cominciare da Aristotele; “scholè”… era questa una parola che in se stessa conteneva un’immensa cultura e che oggi si è ridotta ad indicare un edifico, spesso malamente costruito, dove ciò che c’è di bello, rimane solo la ricreazione, per molti! Ho pensato spesso a come, non negli anni o nei decenni, ma nei secoli, sia cambiata la visione della scuola.
Oggi, noi studenti scendiamo in piazza a gridare per il nostro diritto allo studio e arriviamo a rifiutarci di entrare in classe in nome di ciò che diciamo essere il pane della nostra società: la cultura. Imprechiamo contro chi ci vuole privare dell’istruzione, riducendoci a tanti soldatini o, peggio, marionette nelle mani del governo. Ma mi chiedo se è solo il governo che ci deve preoccupare o se non siamo prima di tutto noi tutti che spesso, privi di incentivi dall’esterno, abbiamo rinunciato alla possibilità di esprimerci, di trovare un senso in quello che facciamo ogni giorno, a cominciare dalla semplice forza di alzarsi per andare a scuola e di studiare con passione. A volte sento come se noi studenti ci auto-riduciamo a scatole vuote nelle quali inserire nozioni, l’una accanto all’altra, faticosamente, come se la scuola fosse una specie di duro castigo imposto dalla vita… chissà, forse per colpe che hanno commesso i nostri antenati! Come avrebbe detto Socrate, questi non sono uomini che sanno, ma dotti che hanno tante informazioni e nessuna conoscenza. E credo che questa sia la più grande, la più vicina minaccia alla cultura, della quale tutti dobbiamo prendere atto; qualcosa che ci riguarda così da vicino, che siamo in qualche modo noi stessi ad alimentare, che forse dovremo cercare di cambiare, anche se certo la società non sempre ci aiuta.
Questo è, molto sommariamente, quello che ho estrapolato dai giorni della protesta studentesca, non solo guardandomi intorno, ma guardando prima di tutto dentro me stessa. Infatti, come ho sopra scritto, è a partire dalla sfera privata che l’uomo comincia a formarsi come un individuo pronto a far parte della collettività.