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In Italia l'arroganza si somma all'approsimazione. Si scaricano gli imbrogli sui magistrati che pretendono il rispetto della Costituzione. Berlino la rispetta dal 1967. Come suggerisce Saviano è urgente la presenza degli osservatori dell'Onu come succede nei paesi del finimondo che si affacciano alla democrazia

Tana DE ZULUETA – Organizziamo la politica come in Germania: regole rigide che l’Italia non gradisce perché legano le mani al padrone del vapore

15-04-2010

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“Conosci quel paese dove fioriscono i limoni”, cantava Goethe dell’Italia due secoli fa. Oggi una simile struggente nostalgia, a parti invertite, rischia di colpire tanti italiani quando a guardare aldilà delle Alpi siamo noi per capire, per esempio, come sta la più grande democrazia europea. Benino, direi. Certo, la perfezione non è di questo mondo, ma il confronto, se ci soffermiamo su molti aspetti dell’organizzazione della democrazia tedesca, è di quelli che fanno sospirare “magari!”

Oggi va di moda la Francia, ma il modello tedesco potrebbe tornare in auge. Sulle pagine del Corriere della Sera, Giovanni Sartori si è associato a Pierferdinando Casini per decantare le virtù del sistema elettorale tedesco. Bene. L’avevo già fatto sul sito di Domani, per cui non torno sull’argomento, tranne che per insistere sulla mia osservazione conclusiva: ok per il sistema elettorale, ma a patto di adottare l’insieme di regole democratiche che governano le elezioni e la vita dei partiti in Germania.

Lo spettacolo delle ultime elezioni regionali italiane è stato di quelli che dovrebbero fare riflettere. L’arroganza si è sommata all’approssimazione, con il risultato che in qualche regione l’esito del voto è tuttora appeso alle decisioni dei tribunali. La confusione e i pasticci clamorosi erano tali e tanti che Roberto Saviano ha trovato largo ascolto quando ha lanciato il suo appello per chiedere l’aiuto degli osservatori dell’ONU. Non era folklore, tutt’altro. Una recente e accurata indagine di Report sui numerosi parlamentari che, in barba allo spirito della legge che vieta i doppi incarichi (una legge che viene interpretata dagli stessi onorevoli) siedono simultaneamente alla presidenza di province o anche come sindaci di grandi città, ci ha rivelato a che punto è traballante in Italia la certezza delle regole nel campo della rappresentanza democratica. Le ri-candidature di presidenti di regione che avevano già svolto due mandati, un limite giudicato ostativo per taluni ma non per altri, è un altro esempio della stessa malattia. Per non parlare della moltiplicazione delle liste, lo sdoppiamento dei simboli e la comica finale delle firme mancanti o della lista che non c’era – con inevitabile contorno di minacce ai giudici da parte dei nostri governanti.

Gli osservatori dell’Onu non c’erano, e nemmeno quelli del Consiglio d’Europa, ma se ci fossero stati credo che ci avrebbero consigliato di rimettere mano alle regole vigenti. Va detto, per inciso, che gli osservatori dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, o OSCE (da non confondere con l’OCSE, il club delle più grandi economie del mondo), hanno osservato ben due elezioni in Italia, le politiche del 2006 e del 2008 – nella totale disattenzione dei nostri media, per non parlare dei politici. I loro rapporti conclusivi si possono ancora leggere sul sito dell’organizzazione intergovernativa che si occupa di democrazia, diritti umani e sicurezza sul nostro continente. La loro principale osservazione – quasi scontata – riguardava la situazione anomala dei media in Italia, incarnata dal conflitto d’interesse del nostro attuale premier, padrone della TV privata con potere di controllo anche su quella pubblica. Il risultato, sia quantitativo che qualitativo, secondo il rapporto, è stato quello di una partita elettorale falsata, con indubbio vantaggio per lo stesso Berlusconi e i suoi alleati. Alle (rare) multe comminate dall’AGCOM, il nostro, come ricorda il rapporto, risponde con un’alzata di spalle, visto che l’azienda di famiglia guadagna una cifra equivalente con 30 secondi di pubblicità su una delle sue reti.

Ma torniamo alla Germania, dove, naturalmente, come in qualsiasi altro grande paese occidentale, una simile aberrazione non sarebbe mai stata tollerata.

La democrazia tedesca è governata per legge, a cominciare – come da noi – dalla Costituzione o Legge Fondamentale. L’articolo 21 di questa legge recita che: “I partiti politici concorrono alla formazione della volontà politica del popolo. Essi possono essere liberamente costituiti. La loro organizzazione interna deve essere conforme ai principi democratici. Devono rendere conto pubblicamente dei loro beni nonché dell’origine e dell’impiego dei loro fondi” (la traduzione è mia). Precetti che non suonano molto diversi da quelli degli articoli 18 e, in particolare, 49 della Costituzione italiana, che chiarisce che “tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti, per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

La differenza sta nell’attuazione. In Italia, per motivi che forse andrebbero approfonditi, ma certamente legati al peso di due partiti fortemente ideologizzati come la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista sulla storia nazionale, il legislatore ha preferito non intervenire nell’organizzazione dei partiti, evitando di chiarire con un’apposita legge quello che si intende per “metodo democratico”. In Germania, invece, sotto la spinta della Corte Costituzionale, la vita dei partiti e la loro partecipazione alle elezioni sono minuziosamente regolamentati, fin dal 1967, da un’apposita legge organica. Questa legge definisce la funzione costituzionale dei partiti, che comprende la formazione del personale politico, il mantenimento di canali di comunicazione tra governo e cittadinanza e la presentazione di candidati alle elezioni politiche ed amministrative. La stessa legge interviene sull’organizzazione interna dei partiti, imponendo regole per la selezione dei candidati, oltre che obblighi di contabilità. I vincoli sono precisi e difficilmente contornabili, per il semplice motivo che solo partiti che sono stati riconosciuti come tali possono concorrere alle elezioni.

Per ottenere questo riconoscimento un partito deve dimostrare di essere democraticamente gestito ed organizzato, secondo i criteri dettati dalla legge. A ben guardare, sono pochissimi i partiti italiani che avrebbero i titoli per questo riconoscimento. Me ne vengono in mente solo due: Rifondazione Comunista e la Sudtirol Volkspartei — l’unico partito italiano che si sceglie i candidati con elezioni primarie. Sarei felice di essere smentita. E’ certo, però, che un partito come Forza Italia, fondato e gestito con metodi proprietari dal suo presidente-padrone, non avrebbe potuto concorrere al voto in Germania. I vincoli a cui ogni partito si deve conformare in quel paese sono precisi: il partito deve svolgere un congresso ogni due anni, l’esecutivo del partito (e di ogni singola federazione regionale) deve essere eletto a scrutinio segreto dai membri del partito o dai loro delegati, i membri non-eletti di ogni organo decisionale non possono superare un quinto dei componenti. Per quanto riguarda la scelta dei candidati alle elezioni, la legge impone la loro elezione da parte di assemblee di partito, a scrutinio segreto. Un vincolo che riguarda tutti i candidati al Parlamento (la Bundestag), sia quelli eletti nei collegi con sistema uninominale, che sono la metà del totale, sia quelli eletti su liste con il sistema proporzionale. Gli stessi criteri valgono anche per gli eletti a livello locale. Chi non si adegua rischia di perdere il diritto al rimborso elettorale.

Troppo rigido? Molto tedesco, certamente. Ma con regole certe, condivise, a quanto pare, da tutti, la Germania è una Stato federale e anche una democrazia forte, riuscendo a garantirsi sia la tanto sospirata governabilità, sia una rappresentanza democratica e un Parlamento che rimane l’organo politico centrale del paese. Non chiederei altro.

Tana de ZuluetaTana de Zulueta è giornalista. È stata parlamentare dal 1996 al 2008, eletta al Senato per l'Ulivo per 10 anni, poi alla Camera, con i Verdi, per due. Ha lavorato come corrispondente in Italia per il settimanale The Economist, e precedentemente per il Sunday Times di Londra. Si occupa di diritti umani e libertà di stampa.

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