Sono nato in un piccolo paese di campagna e tra i personaggi che mi affascinavano c’era un signore di una certa età che ogni sabato pomeriggio, sotto le apparenze della favola, raccontava ai bambini dell’oratorio, cose istruttive e per di più piacevoli, infiocchettate com’erano dalle mille invenzioni di una fantasia fervidissima.
Di quest’uomo non rammento con precisione quasi nulla: né il nome, né l’aspetto fisico, né la condizione sociale e neppure – con grande precisione – il contenuto vero e proprio dei suoi racconti. Ricordo bene, invece, la nobiltà dei suoi gesti, la sua passione di narratore, lo “spirito” del racconto.
Noi bambini stavamo seduti in cerchio, stretti l’uno contro l’altro, e lui, appoggiato al muro, e altissimo nel ricordo, incominciava la sua narrazione con il fatidico “ag gèra na vòlta” (c’era una volta), sorta di introibo all’avventura e al mistero. Dopo un po’, quando già l’entusiasmo era al colmo e tutti ormai pendevamo dalle sue labbra, egli alzava lentamente le braccia, faceva un largo gesto, come se volesse aprire un sipario, e invitava tutti noi che gli stavano intorno a partecipare direttamente alla narrazione, ad aggiungere particolari, a inventare personaggi, a riferire in altro modo l’avventura, ad aprirla a un nuovi sviluppi.
Io me ne stavo lì, ipnotizzato, stregato. Mi piaceva ascoltare il silenzio dei miei compagni fatti muti dalla curiosità. Mi piaceva guardare i loro volti ora allegri, ora inquieti. Mi deliziava soprattutto il modo in cui il cuntafòle (così lo chiamavamo) raccontava le sue storie. Osservavo la sua mimica, le sue pause condite da sguardi dolcissimi, i gesti di complice intesa con i quali si rivolgeva a noi bambini e quella sua aria partecipe che dava ai suoi racconti un colore di verità tutta impastata di meraviglia.
M’è affiorato alla memoria questo lontanissimo ricordo quando mi è capitato di ascoltare, per caso, la barzelletta che Berlusconi ha raccontato il 2 aprile, a palazzo Grazioli, di fronte a una platea formata da parlamentari, sindaci e comitati per il no all’abbattimento delle case abusive in Campania.
Il paragone m’è venuto spontaneo fra quel “cuntafole”, senza dubbio un contadino appena alfabetizzato, ma radioso, ricco di dignità, di fantasia e di valori, e quel presidente del Consiglio, analfabeta nell’anima, sgraziato, sgradevole, rozzo, osceno, ricco solo di insulsi stereotipi (come il meridionale poltrone, ignorante, disonesto) e di un umorismo da Bagaglino fatto apposta per muovere a un riso forzato chi è tenuto “statutariamente” a sorridere davanti al padrone.
Che dire poi di chi gli stava intorno? Gente che per tornaconto, per viltà, per sordità morale insozzava quella bandiera che portava a tracolla, faceva strame della propria dignità. Nessuno che si sia alzato per dire all’analfabeta nell’anima: “Non ci fai ridere, miserabile. Parlando di “culo”, di “fica”, di meridionali pigri e disonesti tu ci mostri quanto ci disprezzi , come tu ci consideri non solo moralmente bacati, ma pavidi al punto da accettare queste ignominie e da sghignazzare platealmente per farti piacere.”
Come sarebbe stato bello vederli abbandonare la sala e lasciar solo l’indegno barzellettiere con le sue mele, i suoi culi e le sue fiche. Fossimo stati presenti noi bambini dell’oratorio l’avremmo sicuramente fatto.
Gino Spadon vive a Venezia. Ha insegnato Letteratura francese a Ca' Foscari.