Non vale la pena star lì a leggere i dettagli sui rapporti sessuali di Julian Assange in Svezia e sulla poco credibile accusa di stupro della quale ha ben dettagliato anche il settimanale l’Espresso. Si noti solo che, di fronte ad accuse per lo meno dubbiose, Assange, stranamente, non ha trovato alcuna solidarietà da parte dei maschilisti in servizio permanente effettivo, quelli per i quali la femmina provoca sempre, ha i jeans attillati e l’omo è omo. Anche loro si inchinano ad una superiore ragion di stato, che va oltre quella di genere, per la quale il signor Wikileaks andava fermato a qualunque costo, anche con un’accusa che ai più appare pretestuosa e fabbricata per delegittimarlo. È una ragion di stato che solo parzialmente si inserisce nella declinante centralità politico-economica occidentale e statunitense ma che appare soprattutto minare, sia nel bene che nel male, le basi della “società aperta” e dei diritti individuali.
In questo contesto sono tristemente evidenti due punti: da una parte (come dimostra il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini che, compiacendosi dell’arresto, non appare in grado di distinguere tra reato e reato) Assange è in galera per stupro a causa della sua attività con il potentissimo strumento Wikileaks, in grado non solo di procurarsi documenti riservati ma di proteggerne la pubblicazione. Dall’altra le classi dirigenti occidentali non sono in grado di capire e farsi carico dell’evoluzione rappresentata dalla Rete e si baloccano nel sogno neo-asburgico di rifare una belle époque dalla quale espungere i processi di controllo da parte dei cittadini per mantenere una serie di sancta sanctorum inespugnabili, nella diplomazia, nelle banche, nella politica, nel giornalismo.
Il primo punto segna il crinale del rispetto delle libertà digitali come paradigma delle libertà individuali. Non è un caso che fin da quando Internet è diventata quel che è, almeno tre lustri, i governi e le classi dirigenti occidentali flirtino con l’idea di imporre, in nome della nostra sicurezza, limiti, filtri, censure in modo appena meno brutale rispetto a quanto fanno regimi dittatoriali. Il loro sogno manifesto è ridurre l’irriducibilità della Rete come strumento orizzontale e non verticale, in grado di parlare da molti a molti e non dall’alto verso il basso.
La vigliaccheria con la quale imprese come Visa e Mastercard stanno in questi giorni collaborando alla caccia all’uomo contro Wikileaks testimonia sia quanto poco sicuri sono i nostri dati nelle loro mani sia il sogno persistente di lasciare in piedi un’Internet solo commerciale, dove intrattenere e fare affari cancellando le peculiarità liberatorie della Rete nel campo della controinformazione ed in quella che Luca de Biase chiamò l’economia del dono. Oggi il caso Assange, e non perché questo sia Robin Hood, sembra divenire una sorta di battaglia decisiva nella quale c’è di nuovo in ballo lo scontro tra una Rete libera in grado di redistribuire il potere d’informare e una Rete controllata dal potere
Infatti, se un rompiscatole come il fondatore di Wikileaks va gettato in galera per un motivo qualsiasi né più né meno come gli sarebbe successo se fosse stato iraniano o cinese, allora cade la maschera. Il segreto di Stato vince sul diritto dei cittadini a sapere, anche in paesi come la Svezia o gli Stati Uniti. Ma se il segreto, la riservatezza, viene presentato addirittura come l’architrave della tenuta del sistema democratico, fino a trattare Wikileaks come un’organizzazione terrorista, allora è il modello stesso di “società aperta” a divenire un ferrovecchio.
È difficile dire se Assange paghi per i cascami della guerra al terrorismo dell’era Bush o se una triste campana a morto stia disegnando il XXI come il secolo degli autoritarismi, ai quali neanche l’Occidente liberal-democratico, dall’ipocrisia rivelata ad Abu Ghraib a quella dei paradisi fiscali, è capace di sottrarsi. Davvero l’Occidente può sentirsi sollevato perseguitando e non perseguendo la trasparenza? Oppure il valore etico di tale trasparenza dato dalle rivelazioni di Wikileaks, ne ha scritto con autorevolezza Sabino Cassese, sulle torture in Iraq come sul golpe in Honduras, ne dovrebbe essere la principale fonte di legittimazione? Come può l’Occidente attaccare la Cina per l’imperdonabile condanna a Liu Xiaobao e per il ridicolo boicottaggio di questa e di suoi alleati (tra i quali alcuni latinoamericani) del Premio Nobel, se col caso Wikileaks non sa farsi carico di rilanciare la trasparenza come valore fondativo? Frattini o Assange?
Il secondo punto è la frontiera tra un mondo vecchio ed un mondo nuovo che non è necessariamente più bello e più puro, ma è, esiste ed è il nostro presente. L’era digitale non è necessariamente più democratica e, anche se è pleonastico ribadirlo, può essere usata da chiunque a fin di bene o meno ma rivoluzionando irreversibilmente la nostra società. Purtroppo quelle classi dirigenti che colgono l’utilità del mondo digitale come strumento per controllare la società non accettano che la bidirezionalità delle Rete permetta anche il percorso opposto, ovvero che la società, o spezzoni avanzati di questa, possano controllare la classe dirigente in una redistribuzione inevitabile del potere propria della nostra era dell’informazione.
Giova allora ricordare che l’era digitale non solo ha messo in crisi con Wikileaks le prassi e le ipocrisie della diplomazia così come queste si erano consolidate dalla pace di Westfalia (1648) in avanti. L’era digitale ha per esempio spazzato via l’industria discografica come si era sviluppata nel XX secolo. Qualcuno pensa ragionevolmente di poter tornare ai dischi in vinile o alle musicassette? Inoltre ha denudato la crisi etica ed economica di lungo periodo del giornalismo, offrendo in alternativa spazi per una riforma agraria dell’informazione o almeno dei contrappesi che impediscono la disinformazione sistematica che è alla base dell’attuale modello informativo. Rispetto all’irreversibilità di tali processi, che comunque andrebbero governati, le classi dirigenti sanno solo vaneggiare l’idea di un impossibile ritorno al passato, a quando solo i giornalisti avevano accesso a veline ed agenzie, i diplomatici facevano attraversare frontiere a valigette inviolabili e le banche potevano sapere tutto dei cittadini ma questi ultimi non potevano sapere nulla delle banche.
La domanda indispensabile da porre allora è: il fango che sta inondando la politica internazionale è stato prodotto o solo rivelato da Wikileaks? La risposta è evidente a chiunque sia in buona fede. Il fango c’era anche prima e ha ragione Noam Chomsky a sostenere che Wikileaks riveli soprattutto che una parte importante dell’attività dei governi (democratici) è oggi evidentemente dedicata a evitare che i cittadini sappiano cosa i governi fanno. Per noi, ed è alla base del sistema democratico che quegli stessi governi sostengono di incarnare, è meglio sapere.
Gennaro Carotenuto insegna Storia del Giornalismo presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Macerata. Giornalista pubblicista, dal 1998 collabora con programmi di Radio3 Rai e il trimestrale "Latinoamerica" dove scrive dal 1992. Ha lavorato o collaborato con quotidiani come El País di Madrid, La Stampa, La Jornada. Dal ‘97 è analista di politica internazionale ed è socio della cooperativa editoriale del settimanale uruguayano Brecha. Nel 2005 ha pubblicato "Franco e Mussolini, la guerra vista dal Mediterraneo", Sperling&Kupfer, Milano. Nel 2007 ha curato il volume "Storia e comunicazione. Un rapporto in evoluzione", EUM. Nel 2009 è uscito "Giornalismo partecipativo. Storia critica dell'informazione al tempo di Internet", Nuovi Mondi.