Beppe Sebaste, Oggetti smarriti e altre apparizioni, Laterza, 2009.
Ovvio che il titolo di questo piccolo libro di Sebaste rimandi immediatamente a treni e stazioni: quale mostro onnivoro ha mai ingoiato un numero maggiore di chiavi, guanti, ombrelli, agende, occhiali, maglioni, portafogli se non lo scompartimento di un treno? E infatti, proprio dall’ufficio oggetti smarriti della stazione Centrale di Milano parte il «viaggio» che Sebaste, giornalista e scrittore, ci invita a compiere insieme a lui. Ma non si tratta del faticoso iter che ben conosce chi ha avuto la sventura di perdere un oggetto caro su un treno, bensì di un percorso, anche interiore, in equilibrio sul friabile crinale che separa la memoria dall’oblio. Perché «oggetti smarriti sono frasi, racconti, avventure, occasioni… Hanno in comune, tra il documentario e la finzione, il sentimento di essere perduti».
La mia sensazione, leggendo questa raccolta di brani già pubblicati e di qualche inedito, è stata quella di trovarmi a cena con un vecchio amico, diciamo un amico di quando si avevano vent’anni, perso di vista da parecchio tempo: l’inizio della conversazione è sempre un po’ lento, difficile (con domande come: «Allora, cos’hai combinato in questi anni?», che costringono a improvvisati consuntivi), fino a quando, complice l’ora tarda e magari un bicchiere di vino, le parole si fanno più intime e si finisce per giocare sul terreno più famigliare dei ricordi. Per accorgersi e stupirsi di quanto possano essere diversi e, dunque, complementari.
Un passato comune – comune a quanti erano bambini negli anni Sessanta – ricostruito fra esperienze differenti e pensieri talvolta asimmetrici, fra la realtà impietosa degli anni di piombo («si capiva poco quello che accadeva, e l’euforia e l’indignazione si trasformavano in rabbia, incredulità e delirio») e le utopie coltivate ascoltando John Lennon, tra un assaggio di filosofia zen e le prove generali della vita adulta, per scoprire che in fondo è «più avventuroso stare fermi che viaggiare», perché la scelta di un luogo in cui finalmente stare è l’avventura più intensa che si possa vivere.
Ma non si allarmino i lettori trentenni, già tentati di archiviare questo libro tra i piagnistei sul «come eravamo» dei loro nostalgici genitori: gli occhi di Sebaste sono curiosi soprattutto del presente, raccontato ora in un viaggio a Samarcanda, ora in una visita a una fabbrica di palloncini (oggetto bizzarro, destinato alla conservazione effimera del fiato), ora tra le baracche di un campo rom, ora nel cantiere dove sono custoditi i resti del DC9 di Ustica. Perché, più difficile che conservare i ricordi del passato, è nutrire la memoria del presente, lottando contro la cecità e l’assuefazione.
E, come Sebaste, sento profondamente mie queste parole di Claude Lévi-Strauss: «Fra qualche secolo, in questo stesso luogo, un altro esploratore, altrettanto disperato, piangerà la sparizione di ciò che avrei potuto vedere e mi è sfuggito. Vittima di una doppia incapacità, tutto ciò che vedo mi ferisce, e senza tregua mi rimprovero di non guardare abbastanza».
Perché nulla, domani, possa andare smarrito.
Federica Albini, laurea in filosofia. Ha insegnato negli istituti statali. Nel 1994 lascia il mondo della scuola per avventurarsi nell’editoria. È redattrice in uno studio editoriale. Vive a Piacenza, lavora a Milano.