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Franco BIFANI – Quando la figlia torna a casa dalla prigione (con la testa rotta dai manganelli della Val di Susa)

28-07-2011

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Non è difficile diventare padre, bastano pochi attimi trascorsi con la madre, nove mesi prima; essere un padre, questo è difficile, e non esistono corsi, né di lunga né di breve durata, e nemmeno accelerati o di recupero, per potere esercitare la paternità entro i limiti consentiti dalla legge, dalla società e, soprattutto, dai figli. Il padre, diceva, ad un certo punto, Ivan Karamazov, è poi sempre colui del quale si desidera la morte; e lo aveva scritto, secoli prima, anche Cecco Angiolieri: “S’io fosse morte andarei a mi’ padre; s’i’ fosse vita, non starei con lui”.

Saggio è quel padre che conosce il proprio figliuolo; ma qual è il figliuolo che vuole veramente farsi conoscere da suo padre? Ho imparato invece che i padri non dovrebbero né vedere né sentire; questa è l’unica vera base della vita di famiglia. Le gioie che ho provato, nella mia paternità, sono così segrete, che non le conosco più, e i dispiaceri ed i timori, non oso nemmeno esprimerli. Forse ho oltrepassato i limiti, sono andato sopra o sotto le righe, ben spesso, provocando l’incapacità delle mie figlie a badare a se stesse. Forse, le ho solo annoiate… Quanti gli interrogativi, tante le risposte, se mai dovessero esisterne. Hanno iniziato con l’amarmi, poi mi hanno giudicato ed ora pare quasi che non mi perdonino qualche cosa, specie il fatto di essere il loro padre. Le mie sventure sono divenute più amare, il pensiero della Morte si è invece mitigato, con il trascorrere del tempo.

Purtroppo, si è sempre figli di qualcuno; i figli abitano le nostre case come estranei misteriosi, sappiamo quando sono entrati, ignoriamo il momento in cui prenderanno le loro cose e se ne andranno. Anzi, spesso si sono già allontanati, per distanze incommensurabili, mentre noi ci illudiamo di averli ancora lì, dinnanzi a noi. Forse aveva ragione Khalil Gibran, quando ricordava a tanti, soprattutto a me: ” I vostri figli non sono i vostri figli. Sono i figli e le figlie della fame che ha in se stessa la vita. Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi, e non vi appartengono, benchè viviate insieme. Potete amarli, ma non costringerli ai vostri pensieri, poi che essi hanno i loro pensieri. Potete custodire i loro corpi, ma non le anime loro, poi che abitano in case future, che neppure in sogno potrete visitare”.

Mi sono risalite alla memoria le tesi, allora considerate aberranti e blasfeme, di David Cooper, fondatore dell’antipsichiatria, che, allora studente 25enne di Psicologia, facevo anche mie. Per lui, era la famiglia il luogo ideale della funzione repressiva ed alienante. Questo tratto negativo dell’istituzione familiare, insieme a Cooper, io lo ritrovavo anche in altre istituzioni sociali, come la scuola, la fabbrica, la Chiesa, lo Stato, l’esercito, l’ospedale. Ed allora, in un modo o nell’altro, come avevo fatto io, ai miei tempi, come ha fatto ora mia figlia Marta, su là, in Val di Susa, quel 3 di luglio, c’è chi mette in opera tentativi di sfuggire alla dimensione alienante e conformistica del sistema sociale vigente, per ritrovare una realtà più autentica, per accrescere la propria consapevolezza individuale.

Me l’hanno sbattuta in prima pagina, su tutti i quotidiani, locali e nazionali, con la testa rotta da una manganellata, fasciata alla bell’e meglio. Cerco di trovare una magra, scheletrita consolazione nel proverbio per il quale siamo tutti sulla stessa barca, per cui mal comune è mezzo gaudio; ma la mia non deve essere una barca, bensì un colabrodo arrugginito, e nei mali comuni non riesco a rinvenire un briciolo di serenità. Penso anche, eroicamente pessimista, alla conte Leopardi, od alfierianamente volitivo, che le disgrazie mie sono più grandi degli ideali meschini e delle gioie immonde di certuni. Ma ritorno a credere che la mia depressione, come quella di ogni altro bipede pensante, rimanga sempre e soltanto il novembre dell’anima. Cerco di rimettermi, a sprazzi ed a tratti, in contatto con il mondo esterno, che mi pare sempre più popolato di gente spensierata, ma la sofferenza si insinua, si intrufola e me ne allontana.

“La morte si sconta vivendo”, asseriva Ungaretti; ed io mi sento ancora più solo, sul cuor della terra, trafitto da un raggio maligno; ed è sempre più sera. Forse, però, sto diventando miope, ottuso ed egoista, mi rinchiudo troppo nel mio male oscuro, non ascolto, non comprendo e non vedo più quello degli altri. Ho iniziato la mia vita, tanto tempo fa, con parecchi dubbi, spero di approdare a qualche certezza; il dubbio è un omaggio alla speranza.

Franco Bifani ha insegnato Lettere in istituti medi e superiori dal 1968 al 2003. Da quando è in pensione si dedica essenzialmente alle sue passioni: la scrittura, la psicologia e il cinema.
 

Commenti

  1. giobbe cortese

    I comportamenti umani sono la sintesi dell’intervento di molti fattori,invece tutti amiamo analizzare gli eventi, concentrandoci solo su alcune cause scatenanti,perchè fatta in questo modo,l’analisi ne risulta più facile e veloce.
    Immaginate invece due gemelli,per esempio,separati alla nascita e lasciati vivere l’uno all’altro capo del mondo rispetto all’altro.Vi assicuro che resterà ben poco di uguale fra loro.Quindi direi che inevitabilmente,la maggior parte di quello che siamo è dovuto a ciò che ci circonda.La virtù di un uomo,(o di una donna)consiste nella sua capacità di affrancarsi dalle infrastrutture mentali e dai preconcetti che gli vengono appiccicati dalla società che lo circonda e dalla famiglia che si ritrova.
    Bisogna che il collirio della verità,della giustizia e della non bellingeranza,abbia priorità sulle appartenenze e sulle ideologie, e schiarisca i nostri occhi dall’opacità dei pretesti alla violenza,dalla legge del taglione,dall’esagerazione dei nostri presunti diritti.Nessuna fede,nessun millantato credito,e nessuna ragione,autorizza a voler annientare quelli che sono,secondo noi, all’altro capo della barricata.
    Questa voglia di scindere il mondo in buoni e cattivi,decidendo ovviamente che i cattivi sono sempre gli altri.Per me va condannato il poliziotto che abusa del suo manganello,ma va protetta l’istituzione dell’intervento coatto contro tutti gli svitati del mondo,ed allo stesso modo,vanno protetti,ascoltati e sostenuti,tutti quelli che,per buoni motivi,protestano in modo pacifico o tuttalpiù in modo deciso.
    L’emancipazione dell’umanità cresce nella misura in cui il pensiero ghettizzato si allontana:si deve essere cristiani,ma non ‘crociati’,mussulamani ma non fanatici,italiani ma anche cittadini del mondo,istruiti ma non saccenti,forti ma non violenti,da qualunche parte della barricata ci ritroviamo.

  2. Andrea Gaggero

    Anche io sono un padre, tutta la mia comprensione a lei sig. Bifani

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