La Lettera

Per ripulire la democrazia inquinata i ragazzi hanno bisogno di un giornale libero

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È abbastanza frequente che editori della carta stampata chiudano i loro giornali. Anche a me è capitato quando dirigevo “L’Avvenire d’Italia”, e oggi si annuncia una vera e propria epidemia a causa della decisione del governo di togliere i fondi all’editoria giornalistica. Ma che chiuda Domani di Arcoiris Tv, che è un giornale on line, è una notizia …

La Lettera

Domani chiude, addio

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L’ironia di Jacques Prévert, poeta del surrealismo, versi e canzoni nei bistrot di Parigi, accompagna la decadenza della casa reale: Luigi Primo, Luigi Secondo, Luigi Terzo… Luigi XVI al quale la rivoluzione taglia la testa: “Che dinastia è mai questa se i sovrani non sanno contare fino a 17”. Un po’ la storia di Domani: non riesce a contare fino …

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Teatro bene comune per il palcoscenico di dopodomani

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Teatro Municipal - Foto di Elton Melo

“Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”. Parole di Leo …

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Il governo Berlusconi non è riuscito a cancellare l’articolo 18, ci riuscirà la ministra Fornero?

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Il governo Monti ha perso il primo round con Susanna Camusso che fa la guardia alla civiltà del lavoro, fondamento dell’Europa Unita. Sono 10 anni che è morto Marco Biagi, giuslavorista ucciso dalle Br. Si sentiva minacciato, chiedeva la scorta: lo Scajola allora ministro ha commentato la sua morte, “era un rompicoglioni”. Rinasce l’odio di quei giorni? Risponde Cesare Melloni, …

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Las Americas Latinas

22-06-2009

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Esiste un’arte con temporanea latinoamericana? E una letteratura? E un cinema? Il percorso che la mostra offre è multiplo e intrecciato, come la realtà che vuole rappresentare. Arti figurative, ma anche letteratura e cinema per esplorare il melting pot del Centro e Sud America nel suo volto attuale, quello che ancora non c’è stato raccontato.

Conferenze, dibattiti, film fino al 30 settembre, spazio Oberdan, via Vittorio Veneto 4, Porta Venezia, Milano.


IL CONTINENTE CHE ESPORTA SOGNI E LACRIME, NON ELETTRODOMESTICI

Questa mostra nasce da un sogno che so di condividere con molti altri provinciali della vecchia Europa: riuscire a capire che cosa accade veramente a sud del Rio Grande, al di là dei luoghi comuni assodati, oltre le immagini proposte dalla veloce globalizzazione dei viaggi, quelli che offrono comprensioni in compresse e lusinghe fragili come souvenirs di vacanze. Dell’America a nord del Rio Grande sappiamo tutto senza capirci nulla: abbiamo la fortuna di ricevere direttamente da loro, dagli americani, un concentrato di come essi intendono apparire. Ce lo raccontano le catene televisive, la lingua dell’internet, i prodotti alimentari e le emozioni politiche. La più potente struttura commerciale che l’umanità abbia mai generato trasmette una identità che nessuna verifica concreta potrà mai controllare. Ci ingannano le arti visive delegate agli scaltri promotori d’un mercato fino a ieri brillante e oggi in severa revisione. Ci salva la letteratura che testimonia talvolta una realtà ben più complessa e coinvolgente. Grande è la letteratura anglosassone oltreoceano. Grande forse ancora di più è la letteratura iberica oltreoceano. In cambio i paesi latini non esportano merci e domini planetari. Hanno influenzato più il nostro immaginario che la nostra realtà, più la nostra mente che i nostri elettrodomestici. Li troviamo poco sugli scaffali del frigorifero e meno ancora a occupare le memorie attive dei nostri portatili. Ma li sentiamo nei loro ritmi musicali e nelle loro evocazioni poetiche, nei sogni infranti della politica e del calcio. Parole come “Piano Condor” o “desaparecidos” o “rivoluzione sognata” si combinano con Borges, Neruda e Octavio Paz. E l’immaginario confonde. Rende maggiore la dissonanza fra Brasilia, la città d’un futuro non avvenuto, e Carnevale di Rio, lo svago del viaggio invernale low cost, di quanto non sia quella fra margarita e caipirinha. Gli yankees friggono ali di pollo e prime ribs nello stesso modo in decine di migliaia di ristorantini, eppure gli europei distinguono fra East Coast e West Coast, fra bostoniani e discendenti texani dagli allevatori di vacche. I latinos vengono compresi, colpa non solo la distanza, in un concetto riassuntivo sincretico. Per giunta i primi sono nella sostanza cocktail d’una lunghissima migrazione di nostri parenti lontani per antiche distanze europee e per declinazioni ben diverse della comune radice cristiana, mentre i secondi ci sarebbero ben più vicini per lingua e per matrice di fede, ma sono il risultato di mescole ben più complesse fra etnie preesistenti e razze importate.

L’America Latina, quella che porta il duplice nome del navigatore toscano associato per aggettivo alla piccola radice della romanità, viene da noi posta in una dimensione metafisica e trascendente.

Molti ne conoscono una parte, pochi la conoscono tutta. Tutti s’immaginano di sapere che cosa essa è. Eppure Città del Messico dista da Buenos Aires più che da Città del Vaticano.

La cultura bianca del Sur poco s’apparenta ai mondi meticci del Perù. Gli indios a loro volta, sopravvissuti ai massacri e alle malattie nostrane, si sono mescolati con gli spagnoli, i tedeschi, i polacchi o gli italiani, coi negritos comperati in Africa e con qualche oppositore francese restio a vivere le dolcezze dei propri governi ottocenteschi. Chile, Argentina e República Oriental del Urugay, luoghi ai quali si approdava come il Candide di Voltaire dalle acque brune del Rio de la Plata, hanno operato costanti riordini etnici e sono scomparsi oggi gli africani del candombe di Montevideo come gli indios delle praterie della Patagonia, uccisi dal genocidio belle époque che si ricorda come “campaña del deserto” del generale Julio Roca. In cambio Buenos Aires ha accolto la comunità ebraica più vasta della latinità. Furono territori in gran parte evangelizzati dai gesuiti. Aristocratici. Laddove predominò l’evangelizzazione francescana, su tutta la riva occidentale pacifica e fino all’antica California, i matrimoni misti furono tollerati e si generò un mondo totalmente nuovo che portò gli angeli della liturgia ispanica a reggere fucili come se fossero stati ibridi ammodernati delle antiche divinità incas e gli autisti di tassì di Guadalajara a essere aztechi al volante. Sulla riva orientale atlantica l’Africa ha inseminato le magie delle sue pratiche ancestrali: il voodoo s’è combinato con gli insegnamenti dei dominicani in tutta quella vasta area che va dal Brasile fino a Cuba percorrendo una via analoga a quella seguita prima della conquista dalle tribù caribiche ch’erano scese giù per il grande Rio delle Amazzoni per disseminarsi lungo i venti propizi del mare fino al Nord.

Non esiste una America Latina, ve ne sono tante, diverse, così dissimili nella loro evoluzione da fare del continente intero il primo esperimento d’un curioso barocco postmoderno. È da questa constatazione evidente che è partita la nostra ricerca. Credevamo che il segno delle arti, maggiori, minori, probabili o popolari, sarebbe servito da lume per chiarire la mente analitica di chi non può vivere esperienze così disparate. Speravamo di poter catalogare per rendere alla teoria la dignità del rapporto con la prassi. Ci eravamo illusi che l’indicazione data da Luis Fernando Benedit poteva essere una prima guida quando ci spiegò i diversi modi di uccidere: “Aquí en Buenos Aires se mata con el cuchillo, al Caribe con el machete, en México con el rifle.”1 La differenza nel sangue di coltello, machete e fucile fu solo una prima ipotesi. Non sufficiente.

Come capire la Colombia dove la rivoluzione delle FARC si svolge un po’ sul serio e un po’ in versione Kindergarten estivo e convive con i traffici mortali delle droghe e con l’Omero moderno? Come capire le Ande ? E la crudeltà di Pinochet, il sanguinario dall’aspetto perbene e dal cognome bretone? Fanno impressione le torture inflitte da Cortés che fa bollire l’ultimo dei re quanto quelle di Pizarro che mette al rogo il generale fedele a Atahualpa che verrà garrotato in piazza. Fanno altrettanto impressione le uccisioni rituali degli aztechi, quando per inaugurare la nuova città di Tenochtitlan annegarono nel sangue decine di migliaia di prigionieri vestiti da festa. Noi non siamo in grado di capire… se non pensando al Circo Massimo o al Colosseo, se non pensando agli autodafé che tanto erano graditi ai sovrani iberici e ai loro popoli credenti, se non pensando alla Blendung di Elias Canetti. Atavismi sepolti in fondo alle nostre anime e ai quali reputiamo oggi di non doverci più riferire.

Nicolás Cristóbal Guillén Batista, il poeta cubano meticcio, che c’entra con il sofisticato anglomane Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo protetto dalla snobissima Victoria Ocampo Aguirre, sorella della sofisticatissima Silvina sposata al socio esperto di gialli del sopracitato Borges, Adolfo Bioy Casares? Che c’entra la musica sottile di Heitor Villa-Lobos, formatosi da autodidatta sul clavicembalo ben temperato, con il patetismo surrealista del tango di Carlos Gardel o con le evoluzioni recenti oltre ogni norma di Astor Piazzolla?

Il Brasile di Jorge Amado s’avvicinava alla poetica visione di Macondo oltre le disparità suggerite e Gabriel García Márquez, il colombiano, trovava un suo predecessore in Juan Rulfo, il messicano doc.

Tutto tornava di nuovo a mescolarsi. Nelle nostre menti confuse il gioco barocco passava costantemente dalla storia alla nostra contemporaneità. I centri del mondo nel frattempo continuavano a sommarsi, Buenos Aires convinta d’essere meglio di Parigi e cratere di qualità cosmopolita, México D.F. città certa d’essere tuttora l’erede morale dell’intero vicereame di Spagna, combinata nella gloria con la riscoperta della sua origine di più grande città del mondo quando ancora c’era il Montezuma azteco, Rio de Janeiro consapevole d’essere stata centro d’un impero di casa Braganza libero dall’Europa da due secoli, Cuzco capitale indiscussa del regno Inca. E poi che dire della delicatezza crepuscolare di Cartagena, della voglia d’Occidente di Caracas e dell’epos estetizzante dell’Avana? Lo stesso termine “coloniale”, quando è riferito alle architetture, assume pesi e sapori completamente diversi.

E infine abbiamo tentato di riassumere, il che è di per sé gesto di inammissibile superficialità. Ma non siamo stati in grado di evitare il tranello. Le Americhe Latine sono il luogo al mondo dove, ovunque, senza riverenza per le necessità richieste dalle pareti dei salotti o dei musei, l’arte è convinta di dovere giocare un ruolo politico, primariamente politico. È convinta di dover testimoniare, di dover assecondare la passione dei propri intellettuali verso un dibattito perenne. Certo, come ovunque, è pure tentata dalle lusinghe del mercato. Ma siccome lì le lusinghe continuano a essere fragili, altrettanto debole è la sua voglia di assecondarle. L’arte delle Americhe Latine è franca. È forse addirittura affrancata. Sicuramente si trova slegata da ogni facile classificazione etnica se consente a ognuno il proprio percorso e permette a chiunque ne frequenti le aree e le arie di farne parte. Quanti gli europei che entrano tuttora nel suo magma!

Certo, come ovunque, molti sono gli artisti tentati dalla proposta di diventare cortesi artigiani da porre all’attenzione nelle gallerie di New York, se tutto funziona, o almeno di Miami. Certo, come ovunque, le borghesie locali sono alla ricerca di legittimare la loro partecipazione a una elegante globalità esibendo i loro compaesani che ne hanno imparato gli stilemi.

Ma alla radice il continente intero continua la riflessione sulla sua enigmatica particolarità barocca. Non sa se appartiene a una stessa cultura. Fa bene a farlo, poiché è consapevole di appartenere alla medesima pulsione. Genera linguaggi diversi secondo una metodologia comune, in un serbatoio infinito di energie. Talvolta appare ben più vicino alle contorsioni mentali che caratterizzarono l’Europa unita nell’unica lingua latina del medioevo sovranazionale di quanto non sembrino parenti dei riformati unificati del Nord. Talvolta sembra un esperimento in corso che corre sull’abisso della storia futura. Spesso comunica una densa sensazione di creatività ben più matura del cosmo sperimentale nel quale cresce. È tutto questo che abbiamo avuto l’ambizione, se non di documentare, almeno di svelare.

1 Vedi Ph. Daverio, El cuchillo, in appendice al volume

Philippe DaverioCritico ed esperto di arte moderna. Collabora a vari settimanali e al Corriere della Sera. Conduce su Rai Tre la trasmissione Passepartout. Insegno Disegno Industriale all’università di Palermo. L’ultimo libro: “ Un’altra storia del design e un modesto tentativo di interpretazione “, Poli Design, 2009

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