Alla fine degli anni Cinquanta, quando cominciavo appena ad avvicinarmi all’arte contemporanea, rimasi di sasso di fronte a un dipinto esposto al Museum of Modern Art di New York. Faceva parte di una mostra intitolata “Sixteen Americans” e l’artista, il cui nome suonava vagamente familiare ma di cui non avevo mai visto le opere, era Robert Rauschenberg.
Double Feature (così si chiamava il dipinto) era coperto da diversi strati apparentemente slegati di colore steso in maniera disordinata, in parte applicata con la tecnica del dripping tipica dell’Espressionismo Astratto, abbinati a una serie di insoliti elementi a collage: fotografie prese da riviste, lettere stampinate, un segmento di un ombrello appiattito, parte di una camicia da uomo con tanto di taschino, oggetti che mantenevano forti tracce della loro precedente esistenza nel mondo reale pur riuscendo a sembrare perfettamente a proprio agio nell’opera.
Guardandomi intorno per essere certo che nessuno mi stesse osservando, tirai fuori un quarto di dollaro dalla mia tasca e lo infilai in quella della camicia nel dipinto. Era un gesto sciocco, ma dopo averlo fatto mi sentii bene. Avevo creato un legame con qualcosa che, per ragioni che non sospettavo neppure, avrebbe acquistato nella mia vita un’importanza sempre maggiore. Secondo Marcel Duchamp l’atto creativo è bipolare poiché necessita non solo dell’artista che lo mette in opera ma anche dell’osservatore che lo interpreta e così facendo lo completa. In quello spirito, negli ultimi 40 anni ho avuto l’ambizione di occuparmi di arte contemporanea non come critico e giudice ma come partecipante.
Ho scritto molto su Rauschenberg, a cominciare da un profilo apparso sul New Yorker nel 1964. Da allora siamo rimasti in contatto e io sono andato a tutte le sue mostre newyorkesi. Man mano che la mia attrazione iniziale per le sue opere lasciava il posto alla convinzione che fosse uno degli artisti più innovativi e significativi della sua generazione, mi è sembrato naturale fare di lui il fulcro di questo libro, in cui si parla dei cambiamenti radicali che hanno reso l’arte visiva una forza così potente nel mondo.
Il libro è stato pubblicato nella sua prima edizione nel 1980, quattro anni dopo che un’imponente retrospettiva, presentata in cinque importanti musei statunitensi, aveva innalzato Rauschenberg ai vertici dell’arte e del successo. Ci sarebbero sempre stati critici secondo cui Rauschenberg era troppo proteiforme, troppo sperimentale o troppo sfacciato per essere preso sul serio, ma già in quel periodo la maggior parte dei detrattori era passata dalla sua parte. La retrospettiva del 1976, come scrisse Benjamin Forgery su Art News, rese evidente che l’opera di Rauschenberg “abbraccia una gamma di esperienze umane che nessun altro artista del nostro tempo ha osato affrontare”.
Dopo, naturalmente, è diventato di moda liquidare Rauschenberg come un artista finito. Questo genere di cose accade spesso, e non soltanto in America. C’è stato un periodo in cui si diceva che Picasso non aveva prodotto nulla di interessante dopo il 1935: ora si affermava che Rauschenberg aveva perso incisività a metà degli anni Sessanta. Lui, ovviamente, ha continuato a lavorare producendo nei suoi vari atelier dipinti, sculture, stampe e disegni in quantità persino eccessiva. L’utopistico progetto di collaborazione chiamato Rauschenberg Overseas Cultural Interchange (ROCI) ha portato l’artista e le sue opere in dieci paesi diversi al servizio della cooperazione e della pace mondiale. La critica ufficiale ha largamente ignorato l’iniziativa e prestato scarsa attenzione ai successivi lavori di Rauschenberg. Gli artisti più giovani che si affermavano in un mondo dell’arte di cui lui aveva sfidato e significativamente alterato i presupposti basilari erano all’oscuro della sua influenza. Quel genere di miopia non poteva durare a lungo.
Un’altra colossale retrospettiva, tenutasi al Guggenheim Museum nel 1997, ha fatto apparire gracili al confronto i talenti artistici più recenti. Da allora i giovani artisti non hanno smesso di riscoprire Rauschenberg e la sua stella è tornata a splendere. Mi piace pensare che l’edizione riveduta e aggiornata di questo ritratto di Rauschenberg per l’italiana Johan & Levi possa avvicinare nuovi lettori all’artista che più di ogni altro nell’ultimo mezzo secolo ha mirato a un’arte cumulativa, all’incontenibile innovatore che una volta disse, nel suo generoso stile americano, di voler creare una situazione “in cui ci sia tanto spazio per l’osservatore quanto per l’artista”.
Calvin Tomkins, critico d'arte del New Yorker, vive a New York.