È ancora nelle sale – ma credo non ci starà per molto – il coinvolgente film “Agorà”, del bravissimo regista spagnolo Alejandro Amenabar. Qualcuno forse ricorda un altro suo film del 2004, molto provocatorio, ma problematico e non proprio del tutto di parte, il bellissimo “Mare dentro”, che raccontava la storia vera di un uomo che aveva scelto l’eutanasia, mettendosi decisamente contro la morale dominante. Un film pieno di poesia e di amore per la vita.
In quest’ultimo lavoro, invece, viene ricostruita il più fedelmente possibile, ma con un tocco d’arte, la vicenda di una donna di grande intelligenza che ha amato, più profondamente, la filosofia e della quale la gelosa misoginia maschile, che da sempre mal sopporta concorrenze in tal campo, ha forse taciuto un po’ troppo. Ma, soprattutto, in questo film si cerca di entrare in contatto con un personaggio universale. Stupisce, infatti, ma non è per nulla inadeguata, la straordinaria modernità della protagonista, poiché lei altro non rappresenta che il desiderio di autonomia e la libertà della ricerca che sempre in ogni individuo può albergare, anche se per Ipazia c’è qualche problema in più. Prima di tutto perché donna alle prese – ma non troppo – con i pregiudizi del suo tempo (e ogni tempo ne ha, compreso il nostro, se ancora si deve parlare di pari opportunità). Ma soprattutto perché alle prese con una strana religione. E qui ancora di più il tema si rivela attuale: il difficile percorso della tolleranza si evidenzia nella difficoltà di incontro tra diverse culture, con il paradosso, non certo unico, che coloro che erano stati perseguitati divengono persecutori.
Su Ipazia solo recentemente sono usciti alcuni libri molto interessanti, anche se Mario Luzi, il grande poeta fiorentino da qualche anno scomparso, le aveva dedicato nel 1972 (proprio l’anno di nascita del giovane Amenabar, strana coincidenza) una bella opera teatrale, mettendone in luce la drammatica vicenda. Infatti l’aristocratica Ipazia, filosofa neoplatonica e matematica che, in base alle testimonianze pervenute fino a noi, può essere considerata l’anticipatrice delle teorie di Galileo e Keplero sul moto terrestre, fu uccisa barbaramente per l’intolleranza causata dal fanatismo religioso esploso in quel tempo (Ipazia muore nel 415: era l’8 marzo, un giorno che è un’altra coincidenza, dal momento che la festa della donna si riferisce a un altro evento drammatico, riguardante la morte di più di cento operaie in una fabbrica tessile americana, ma è un fatto molto più recente, del 1908).
L’unica colpa, aggravata dal fatto di essere una donna indipendente, fu di aver difeso, con la sua libertà di pensiero, anche la tolleranza, in una città, Alessandria d’Egitto, in cui si stava decisamente affermando, con i suoi primi dogmi, la nuova rivoluzionaria religione (appena ufficializzata dall’Imperatore Teodosio) destinata a propagarsi a macchia d’olio in tutto il mondo, ovvero il cristianesimo.
Il regista, autore anche della sceneggiatura basata su precise documentazioni, non nasconde la grave e diretta responsabilità del vescovo Cirillo (purtroppo poi santificato dalla Chiesa, senza che di questo argomento si sia mai ufficialmente parlato) nell’istigare la violenza che avrebbe portato all’omicidio, rimasto del tutto impunito. Non si trattò infatti di una condanna a morte ufficiale e non vi fu nessun processo per stregoneria, anche se poi ce ne sarebbero stati a migliaia, nel corso della storia, nell’ambito del tristemente noto Tribunale dell’Inquisizione.
Si trattò dunque di un assassinio assolutamente gratuito e assolutamente atroce. Il regista è stato molto delicato, non aveva nessuna intenzione di seguire le orme di Mel Gibson nel suo tanto discusso “Passion”, in cui il lungo martirio patito da Gesù di Nazareth è ossessivamente rievocato nell’interminabile inquadratura, pur tanto apprezzata dagli alti vertici ecclesiastici. Il sacrificio di Ipazia non viene direttamente mostrato, ma resta preparato da una scena commovente dove lei, già denudata dai laidi parabolani, gli ignoranti e violenti monaci itineranti responsabili della sua uccisione, è sostenuta dal suo ex schiavo e allievo, anche lui come altri convertitosi al cristianesimo, ma sempre segretamente e inutilmente innamorato di lei (questo aspetto sembra una concessione al romanzo, ma il messaggio è forse più sottile e lo lascio all’ interpretazione di chi lo vedrà).
Un altro particolare non da poco su cui si può riflettere: la scelta del metodo di esecuzione proposto nel film – lapidarla – pare non corrisponda alla realtà, se possibile ancora più crudele. Infatti il corpo, secondo le testimonianze, fu orrendamente torturato e devastato per mezzo di conchiglie acuminate. Né questa scena atroce né la lapidazione si vedono tuttavia nel film. Mi sto soffermando sulle ultime scene e forse non dovrei, ma credo sia importante chiedersi perché il regista, pur così rigoroso nella ricostruzione, abbia avuto questa delicatezza nel voler cambiare in qualche modo il finale, non abbia voluto cioè rappresentare la violenza estrema compiuta su Ipazia.
Forse con tale omissione ha voluto tributare un piccolo omaggio tanto a Ipazia quanto all’intera umanità. In qualche modo, non potendo accettare fino in fondo tanta inaudita barbarie, ha voluto dimostrare che la sua non è una banale critica ideologica nei confronti della Chiesa, ma specialmente un monito a ricercare sempre e comunque la verità, a tutti i livelli, al di là delle eccessive idealizzazioni che del Cristianesimo – come pure di altre religioni – sono state fatte nel corso della storia. Permettendo proprio così all’integralismo e al fanatismo di assumere potere e finendo spesso col tradire il proprio originario messaggio di pace e di amore. Che è poi il messaggio di Gesù e di San Francesco, e di innumerevoli altri santi e vescovi straordinari.
Nel film, va ricordato, emergono anche i primi episodi di intolleranza verso gli ebrei da parte dei cristiani, da questi ultimi chiamati “deicidi”, dimenticando assurdamente che Gesù stesso era ebreo. Una strada molto pericolosa, questa, su cui Giovanni Paolo II aveva fatto comunque esemplarmente ammenda.
Tornando alle donne, il vescovo Cirillo (e prima di lui Teofilo), cita soprattutto San Paolo, che doveva avere una inspiegabile profonda avversione per esse. C’è da pensare anzi che le temesse, se si preoccupava, come emerge chiaramente dalle “Lettere” – in altre circostanze sublimi – di stabilirne la necessaria sottomissione a padri e a mariti e a voler vietare loro addirittura di parlare in pubblico.
Non sarebbe comunque il caso che la Chiesa, anche e soprattutto nei più autorevoli rappresentanti, facesse tesoro dei suoi errori più gravi errori, meditando anche sui significativi messaggi che emergono da questo film, senza per questo continuare a sentirsi sempre denunciata e perseguitata (come inopportunamente anche recentemente ha fatto quando è esplosa la bomba della pedofilia)?
Semmai si potrebbe proporre a un regista di buona volontà la misteriosa vicenda di un’altra martire di cui a tutt’oggi si conosce pochissimo: Santa Caterina d’Alessandria, martire cristiana vissuta e morta nella stessa città di Ipazia circa un secolo prima. Forse scopriremmo ancora una volta che al di là del credo religioso, è sempre stata l’intelligenza e la libertà di pensiero, con la passione eroica che spesso è delle donne, a rendere la vita difficile e perseguitata.
Ma se santità è morire eroicamente non solo per le proprie idee ma anche per la pace e per la tolleranza, allora anche Ipazia, seppur non cristiana, avrebbe potuto essere proclamata santa, sicuramente con molto più diritto del vescovo Cirillo. Ma su questa storia anche il papa tace, mentre a Torino continua la sfilata (di cristiani e non) davanti alla Sindone, che vuole ricordare il Cristo e il sacrificio di un innocente, proprio come quello di Ipazia.
Giusy Frisina insegna filosofia in un liceo classico di Firenze