Mettiamo che io abbia un bambino da mandare in prima elementare in questi giorni. Mettiamo che il ragazzino si trovi in una classe con 28 compagni (20.000 insegnanti in meno comportano l’aumento del numero degli alunni), di cui dodici variamente cinesi, marocchini, peruviani. Che cosa farò pensando al futuro del mio bambino? per quanto sostenitrice della scuola pubblica e della multiculturalità, farò un po’ di conti e, se appena ce la faccio – l’interesse dei figli prima di tutto – l’anno prossimo lo iscrivo a una privata.
Così la gente “subisce”. Individualmente non possiamo fare molto di fronte agli insegnanti “tagliati” e alle vittime del precariato che non vedranno una cattedra per chissà quanto. Ma dobbiamo essere meglio informati; ragionare insieme, come cittadini, su quali debbano essere le priorità dell’agenda pubblica; e, possibilmente, prevenire la totale privatizzazione della scuola, diritti costituzionali compresi. Perché di questo si tratta.
Il mondo è “destinato” a cambiare necessariamente a senso unico? Davvero non potremo, nemmeno con un altro governo, nemmeno con la vera bacchetta magica della volontà comune (cioè del “nostro” fare politica), arginare gli “effetti Gelmini”, ahimè duraturi? Se prevalgono i fatalisti, i cinici e gli inerti, ci sarà chi si impegnerà nel nuovo business delle privatizzazioni e costruirà nuove scuole. Private. Per il mercato di un sistema più o meno americano, qualche anno fa sostenuto da non pochi politici (ricordate la scuola-azienda, i presidi-manager, gli alunni-clienti di Luigi Berlinguer?) da applicare all’Italia, mentre già franava negli States.
E’ già un’evidenza quello che succede per le esclusioni dalle scuole dell’infanzia (e, per piacere, non chiamiamole “materne”, come se non fossero scuole e i protagonisti non fossero i bambini). La vecchia/nuova guardia anticlericale non si rende conto che discutere oggi di “convenzioni con le scuole cattoliche” per gli asili non significa volere o meno “dare soldi ai preti”. Si tratta di riconoscere la privatizzazione ormai visibile a occhio nudo, che è incominciata dalla mancata costruzione di scuole e laboratori e che ormai priva gli scolari dei muri dentro cui istituire asili e nidi, dei sussidi e delle borse di studio per i più grandi, mentre le tasse universitarie si faranno sempre più forti. Paradossalmente, se i necessari sacrifici dovuti dalla crisi non salveranno la scuola pubblica di ogni ordine e grado, nuove “libere” iniziative privatistiche e formative chiederanno anche le sovvenzioni per il loro “pubblico servizio”. Esistono già per i nidi, mai integrati nel sistema educativo generale.
Non sono lontanissimi i tempi in cui gente capace non si iscriveva a medicina per la lunghezza del percorso e perché, una volta laureati, non avrebbe avuto i mezzi per affittare un ambulatorio e attrezzarlo. Non vorremmo che ritornassero quei livelli. Se finiranno per studiare solo gli abbienti, bravi e non bravi, e i poveri soltanto se bravissimi, sarà un disastro, soprattutto in un paese che ha bisogno, per sopravvivere nella globalizzazione, di alzare a tutti i livelli le capacità culturali e professionali di massa. Altrimenti lavoreremo per i call-center di India e Cina.
Per questo, prima di rassegnarci a tutti i tagli e di prendercela con le amministrazioni che li praticano a danno dei servizi, si dovrebbe poter immaginare che la società civile interpelli non solo le istituzioni, ma tutte le autorità coinvolte, imprese, chiese, università, sindacati, la stampa per riunirle attorno a un tavolo e domandarsi se è proprio vero che non ci sono vie d’uscita e quali priorità imporre a chi dice che la cultura non si mangia.
L’effettività dei diritti è alla base della resistenza se si deve salvare la democrazia.
Giancarla Codrignani, docente di letteratura classica, giornalista, politologa, femminista. Parlamentare per tre legislature