Del Pakistan in questo periodo si parla per un motivo solo. Abbiamo già dimenticato che ci sono 22 milioni di persone che, come nel 1970, stanno vivendo una tragedia immane. Dimenticandoli pensiamo che non esistano, che rimangano lì a mollo aspettando l’inevitabile crisi alimentare, igienico sanitaria ed ambientale che li travolgerà tutti. Non sarà così.
Gli indignati difensori dell’italica purezza devono mettersi l’anima in pace, non sarà più così: avremo altri pakistani che abiteranno le nostre tranquille cittadine con le loro famiglie. L’assassino di Novi di Modena era un operaio di 53 anni, aveva famiglia e non riusciva a conciliare le sue tradizioni, la sua cultura e le sue convinzioni con il mondo che l’aveva accolto. Non mi pare che sia molto diverso dai maschi nostrani. Non ne faccio una giustificazione per l’orribile omicidio di cui si è macchiato e che ha macchiato anche la sua famiglia. Ma non è un pretesto per affermare che le culture e le convinzioni dei migranti siano una minaccia.
Basterebbe andare a qualche chilometro più in là, a Piacenza, o scendere più a sud, a Taranto, o tornare a Varese e Verona, per rendersi conto che queste sono affermazioni strumentali. Come è strumentale la convinzione che siccome l’India non aiuta il Pakistan è giusto che se la sbrighino da soli. Noi stiamo all’asciutto sul nostro Ararat, confortati dalle nostre convinzioni vincenti. Non so se il Pakistan abbia chiesto aiuto al suo nemico inventato dall’Impero, nè se l’India abbia rifiutato in nome della stessa strumentale inimicizia.
Ma l’incontro di ieri a Borghesiana è stato interessante per imparare o sapere che tante informazioni di cui usufruiamo sono a dir poco limitate e molto scolastiche. Ho chiesto al professor Lo Turco se l’autore del libro presentato frequenti e conosca Salman Rushdie. Mi ha fatto ben altri nomi di scrittori e drammaturghi pakistani e indiani che si ritrovano in quella che considerano la loro patria culturale. Intellettuali, certo, non disperati costretti ad abbracciare la religione, o una interpretazione di essa, come unica identità culturale sulla quale altri, ben più furbi, hanno facile manovra di controllo.
Ma siamo sicuri che succeda solo in Pakistan?
P.S. La signora Carfagna invece di costituirsi parte civile per ogni omicidio perpetrato sulle donne, dovrebbe sviluppare in maniera seria ed efficace strategie che permettano alle donne di affermare la loro civiltà. Perché le donne, siano pakistane, padane o tarantine hanno una grande civiltà che le accomuna tutte. Ma non credo che a non capirlo siano solo i maschi.
Silvio Cinque vive a Roma dove fa il bibliotecario ("il mestiere più bello del mondo").