Azzurra Carpo a colloquio con generale Fabio Mini
Sono 113 le basi Usa in Italia. L’importanza della sicurezza giustifica l’ impressionante dispiegarsi di potenza militare con capacità nucleare? O risponde al vecchio detto ” finchè c’è guerra, c’è speranza”? Chiediamo al generale Fabio Mini, ex capo di Stato Maggiore del comando NATO delle forze alleate Sud Europa e al Vertice della Kfor in Kossovo, che ci aiuti a capire.
Generale Mini, lei è stato capo di Stato Maggiore del comando NATO delle forze alleate Sud Europa e al Vertice della Kfor in Kossovo: il disarmo aiuta la pace o frena l’economia?
R -Dicono che, fino agli anni ’80, la maggioranza delle persone del mondo nutriva sentimenti di avversione alla guerra. Da quando la CNN, nella prima Guerra del Golfo, ha portato in tutte le famiglie le immagini dei lampi colorati, provocati dai razzi e dai bombardamenti sul cielo dell’Irak, in un gioco di colori simili agli effetti speciali cinematografici, la guerra pone meno interrogativi morali e politici: è diventata uno spettacolo. Carichi di bombe, gli aerei partivano da Aviano alla volta della Serbia, e le robuste massaie friulane di granitica fede cattolica, accompagnavano i mariti con la penna nera degli alpini, mentre facevano la coda in autostrada per assistere alla partenza delle squadriglie che, per stanare Milosevic, frantumava i ponti sulla Drina e seminava morte. Se il termine “pacifismo” è diventato ormai una calunnia da cui difendersi, è tutta colpa della CNN? Troppo semplicistico. Perché la guerra e le basi militari; perché le armi e gli scudi spaziali, hanno smesso da tempo di suscitare lo sdegno e, al contrario, infondono una certa sicurezza e tranquillità?
Il generale Mini é uno degli esperti autorevoli in materia di basi militari, essendo stato Tenente Generale e Ispettore del Reclutamento dell’Esercito Italiano, Capo di Stato Maggiore del Comando NATO delle Forze Alleate del Sud Europa e comandante per un anno, della Forza Internazionale di Sicurezza in Kosovo (KFOR). E’ autore, inoltre, di numerose pubblicazioni fra cui <L’altra strategia> e <I classici del pensiero cinese dalla guerra al marketing> (Franco Angeli, 1998), frutto della sua esperienza triennale di Addetto militare, aeronautico per la difesa in Cina. Con la casa editrice Einaudi ha pubblicato <La guerra dopo la guerra> (2003) e <Soldati> (2008). Collabora con il quotidiano <La Repubblica> e con la rivista italiana di geopolitica <Limes>.
Generale, perché tanta gente ha interiorizzato il discorso della “sicurezza” da non porsi domande o nutrire dubbi sull’eterna permanenza del militare-strategico?
R: C’è sempre qualcuno che, con il pretesto della sicurezza, intende maneggiare e riattivare i processi di paura. Questo paradosso è reso possibile da un teorema ormai divenuto un dogma: dobbiamo aver paura di tutto perché tutto è possibile, e possiamo difenderci solo con le armi.
Quali sono queste paure e come vengono manipolate?
R: La prima paura, inoculata e abilmente strumentalizzata, è quella relativa alla proliferazione della armi nucleari. Al riguardo, alcune informazioni vengono enfatizzate, altre sono tenute nascoste. Si fa circolare il timore che un qualche ordigno nucleare finisca in mano di qualche pazzo o che ne venga in possesso un paese islamico considerato potenzialmente aggressore, come l’Iran. Si tace, invece, su Israele, che ha già un centinaio di testate atomiche procurate in barba a tutte le raccomandazioni e le convenzioni sulla non proliferazione. A livello internazionale, ci si gira dall’altra parte se l’India è una potenza atomica e se il Pakistan è diventato un proliferatore e contrabbandiere di tecnologia nucleare con la connivenza complice degli Stati Uniti, Europa, Russia, Cina.
In quale modo reagiscono gli stati egemoni di fronte a queste e ad altre paure?
R: Le paure nascono dalla vulnerabilità delle linee di comunicazione, dai conflitti, dal bisogno di petrolio e gas, dall’incubo del terrorismo islamico e dal diffondersi dei traffici illeciti di droga da parte della malavita organizzata. Infine, esiste la constatazione che alcuni Stati non riescono a superare le loro difficoltà, e che ne potremmo subire le conseguenze con migrazioni massive e violente. Tutti questi elementi vengono sommati irrazionalmente, in modo che non inducano ad interrogarsi sulle origini dei problemi e sui modi pacifici per risolverli, ma che tendano ad esasperali dando la percezione di vivere in un mondo pieno di drammatiche minacce alla civiltà, al nostro stile di vita e alla stessa sopravvivenza umana.
Per ora gli stati egemoni sfruttano queste paure, perchè la loro sovrapposizione ingrassa i poteri economici forti e diluisce la responsabilità degli stati. A lungo andare dovranno però affrontare il problema della perdita di potere statuale nei riguardi di una concorrenza privatistica e criminale che sarà sempre più forte. La stessa crisi economica non vede gli stati attori principali del recupero ma semplici prestatori d’opera nei riguardi delle banche, delle imprese forti e della stessa criminalità. Pensi soltanto agli enormi interessi delle varie mafie (non solo italiane) nei piani infrastrutturali. La crisi durerà ancora un paio d’anni. Nessuna opera sarà mai completata in questo periodo, ma intanto gli appalti e subappalti ricevono enormi risorse (o promesse di risorse che dovranno essere comunque allocate dopo la crisi per molti anni ancora). Lo schieramento militare ha una grande importanza perchè consente che un settore enorme di profitto privato continui a prosperare mentre quello pubblico (industrie, politicanti e ammiragli) non perdono nè potere nè posti di lavoro.
La sua analisi la permanenza delle basi militari Usa come questa di Vicenza, oltre che rappresentare il passato, sono funzionali soltanto alla manutenzione della paura? O considera vi siano sintomi di cambio nella politica di Washington adesso Obama è presidente?
R. Più che sintomi ci sono per ora delle intenzioni dichiarate che vanno verso il superamento del paradigma paura=potere. Il presidente Obama ha annunciato che a causa della crisi dovrà tagliare i fondi alla difesa. Inoltre ha assunto toni distensivi con l’Iran. Tuttavia ha confermato l’invio di altre truppe in Afghanistan e i suoi consiglieri si stanno preparando ad un approccio più aggressivo con il Pakistan. Anche la questione Iraq è ancora aperta. Ci sarà senz’altro una riduzione di truppe, ma non è detto che questo coincida con la chiusura di alcune basi. Anzi, io credo che proprio il ritiro di truppe costituirà il movente per trasformare alcune basi transitorie in basi permanenti, in pratica da semplici “camps” a vere e proprie Basi. La questione con la Corea del Nord si fa ancora una volta complessa e i rapporti con la Cina, ancorchè utili dal punto di vista economico in questa particolare congiuntura, non sono ancora strategicamente stabilizzati. Forse la molla della paura potrà essere superata, ma non credo che il presidente riesca a moderare i desideri di potenza (con relativi interessi) che lo schieramento delle basi soddisfa. Un altro elemento riguarda le persone. Con questa amministrazione godono di largo credito dei personaggi non proprio restii all’esercizio del potere militare nel mondo. I Clinton, Albright, Holbrook, Hill sono gli stessi che hanno fatto le guerre e stabilito il principio della formazione di nuovi stati su base etnica. Ora s’interessano di questioni mondiali e Holbrook è responsabile addirittura per Afghanistan e Pakistan mentre Hill sarà ambasciatore in Iraq. Se applicano gli stessi principi applicati ai Balcani e al Caucaso saremo costretti ad affrontare nuove crisi.
Quali sono stati finora i fondamenti della strategia delle basi statunitensi in Europa? Sono ancora validi attualmente (progressivo ritiro dall’Irak, Afghanistan, apertura all’Iran, ridiscusso lo scudo USA in Polonia, timido disgelo con Putin su Cecenia-Georgia)?
R- Ho indicato i fondamenti della strategia delle basi in 1) presenza sul territorio, 2)pressione politica, 3)penetrazione economica 4) schieramento avanzato per successive proiezioni di forza. Secondo me tutti questi elementi (ed altri) non hanno più senso in Europa, ma sono fondamentali nella mentalità americana in altre parti del mondo. Tra scegliere di chiudere basi sicure e aprirne di insicure io penso che purtroppo la soluzione sarà quella di mescolare le due cose. Le basi sicure in Europa non saranno chiuse mentre quelle in Africa, Caucaso, Asia ecc. saranno aperte contando sul sostegno delle prime.
Con Obama si avvertono o si prospettano variazioni sul numero e la dislocazione delle basi militari statunitensi nel mondo?
R. Non credo e comunque piccoli aggiustamenti non significativi ai fini della politica generale che rimane quella di presenza attiva americana nel mondo. Semmai cambierà l’atteggiamento verso i partners. Saranno chiamati a dare maggiore sostegno proprio perchè gli USA non sono in grado e non vogliono più fare tutto da soli.
Quali sono le sue indicazioni alla società civile per una cultura della Cooperazione Internazionale che superi le logiche dell’occupazione post-bellica e della guerra fredda?
R. Esercitare un forte potere di persuasione sulla opinione pubblica affinchè i disastri dei conflitti e dei post conflitti non siano presi come disgrazie ma come veri e propri atti criminali. La criminalizzazione della politica dissennata e persino degli errori (che non sono mai in buona fede) è la sola chiave per sottrarre qualsiasi vantaggio politico a chi li persegue impunemente. Se un politico o un governo si rende conto che la sua azione o la sua mancanza di azione è un crimine e non semplicemente una scelta politica forse si riesce a restituire serietà agli interventi di cooperazione. Gli stati (soprattutto quelli più forti) devono assumersi una sorta di responsabilità sociale dei loro atti e dei loro non atti nei riguardi del resto del mondo e soprattutto dei conflitti scatenati o soltanto tollerati. Questa responsabilità sociale si deve tradurre in aperta denuncia dei danni (in termini umani, economici ed ambientali) che subisce il sistema internazionale a causa dei conflitti e della finta solidarietà. I danni devono a loro volta tradursi in criminalizzazione (etica, politica e se possibile penale) delle persone responsabili degli atti e delle omissioni.
Quale la strategia degli Stati di fronte alle preoccupazioni dei cittadini?
R: Resta la stessa di quando c’era la Guerra Fredda: installare avamposti militari come nel <deserto dei Tartari> di Buzzati: aspettare armati, scrutando l’orizzonte. In realtà, la rappresentazione complessiva di queste minacce dimostra che non ci troviamo di fronte a fenomeni semplici e lineari affrontabili con un solo strumento anche se potente come quello militare.
Nel 2007 le esportazioni di armamenti hanno raggiunto il record di 2.4 miliardi di euro. Anche in Italia si fanno affari d’oro con la guerra.
R: Molti nel mondo sono convinti che per risolvere la crisi economica non si debbano ridurre le spese militari. Anzi, che la ripresa è collegata anche a questo settore. <Finchè c’è guerra, c’è speranza>. Dai dati ufficiali emerge un preoccupante trend di crescita del traffico mondiale di armi dal 2007, anche a paesi non appartenenti alla NATO e all’Unione Europea (Vedi quadri allegati). <Se tutto ciò che hai è un martello, tutto ciò che vedi è un chiodo>. Occorre lavorare per invertire questa riduzione semplicistica dei problemi mondiali. In particolare, le basi militari non portano nessun vantaggio all’economia della zona, al massimo favoriscono qualche bar e club notturno. In molti casi è invece successo che, una volta tolto il paravento dell’indotto militare, l’economia vera si è risvegliata: quella autogena e duratura che genera ricchezza vera e non parassitaria.
Oggi, chi è il nemico ?
R: Quando rifletto sulla paura e sulle sue conseguenze, mi viene alla mente una frase di Voltaire: Le streghe hanno smesso di esistere quando abbiamo smesso di bruciarle. Non è tanto quello che ti spara di fronte. Piuttosto la vera minaccia alla sicurezza è quella che proviene alle sovrapposizioni tra legalità e illegalità, politica e criminalità, interesse privato e prubblico. Così la soluzione non sta nell’eliminazione fisica di u avversario o di un terrorista, ma nella individuazione ed eliminazione delle sovrapposizioni che lo legano alla politica, agli interessi, alla speculazione e all’oppressione. Non sono necessarie altre e nuove basi militari. Ci occorrono altri e nuovi strumenti di Intelligence, di Soft Power e di cooperazione internazionale. Ci vuole più conoscenza, più informazioni. Prima dobbiamo sapere e capire e, in base a questo, dobbiamo intervenire con gli strumenti più adeguati per controllare i rischi nel nostro territorio, e stimolare il controllo democratico nei confronti dei governi dei paesi in qualche modo coinvolti.
Soltanto così possiamo intervenire prima che le minacce e la paura ci risucchino tutti quanti nel grande imbuto della disperazione.
Bruxelles non ha ancora saputo esprimere una politica estera e di sicurezza impostata sull’interesse comune europeo.
R: E’ vero. L’Europa finora non è ancora politicamente in grado di influire sulle scelte strategiche. Ha lasciato la NATO nelle mani degli Stati Uniti, ed ora la sta lasciando nelle mani della cosidetta Nuova Europa (i paesi europei dell’Est che hanno fatto una traumatica esperienza sotto il regime sovietico) che però è soltanto anti-russa e quindi opposta alla pacificazione dell’Europa stessa. Questo non è rassicurante. Da un lato, può alimentare la voglia di quella parte di statunitensi (e non solo) che vogliono e alla contrapposizione frontale con i paesi petroliferi di fede mussulmana. Dall’altro, può assecondare coloro che sognano il ritorno alla guerra fredda con la Russia di Putin
Rispetto alla politica di Bush, mallevatrice delle paure occidentali, la rimozione del ruolo dell’ONU e l’uso dell’attacco preventivo verso i paesi ( così detti ) dell’asse del male e l’ installazione dello scudo spaziale con Obama qualcosa può cambiare?
R: Sotto lo scontro ideologico che motivava la guerra fredda c’era una competizione economico-politica. Attualmente, con tecnologie nuove, gli “scudi spaziali” rispondono a sistemi di controllo satellitare dello spazio e delle risorse energetiche. Ci auguriamo che non continui la competizione geoeconomica per il controllo del pianeta.
Quali sono le sue indicazioni alla società civile per una cultura della Cooperazione Internazionale che superi le logiche dell’occupazione post-bellica e della guerra fredda?
Gen. Mini: Lavorare per un nuovo approccio di cooperazione che superi le logiche dell’occupazione post-bellica e della Guerra Fredda. Ripristinare la sovranità degli Stati ed affidare a Organismi Internazionali come l’ONU la regolazione della sicurezza regionale e globale. Superare le paure e costruire conoscenze. Nessuno può agire da solo. Occorre che tutti cambiamo paradigma: non è giusto ciò che è potente, ma è potente ciò che è giusto.
Intervento completo videoregistrato del Gen. Mini, 19/09/08, Teatro Astra, Vicenza. http://www.coordinamentocomitati.it/Convegno_080919.aspx
Specialista in cooperazione internazionale. Autrice di "Romanzo di frontiera" (Albatros, Roma 2011), magia e realtá delle donne latinoamericane alla frontiera Messico-USA; "In Amazzonia" (Milano, Feltrinelli, 2006); "La Ternura y el Poder" (Quito, Abya Yala, 2006); "Una canoa sul rio delle Amazzoni: conflitti, etnosviluppo e globalizzazione nell'Amazzonia peruviana" (Gabrielli Editore, Verona, 2002); co-autrice di "Prove di futuro" (Migrantes, Vicenza, 2010).