Cosa chiedere al centrosinistra? Cosa il centrosinistra può fare? Cosa il Partito Democratico può essere?
Sono domande che mi ronzano in testa da quando ho deciso, due anni fa, di impegnarmi in politica, con l’intenzione di dedicare una parte del mio tempo, delle mie capacità, delle mie speranze al servizio della comunità.
Sono domande che continuano a rincorrersi nella mia mente e che si infrangono a ogni risveglio sempre più berlusconiano. Dallo stupore per un paese che continua a riconoscersi in un modello distorto di convivenza e di comunione di valori all’incredulità per l’incapacità di vedere ciò che questo paese è diventato, non c’è tregua per una persona che come me si avvicina ai 40 anni con un presente precario e un futuro incerto lasciato in mani di cui non mi fido.
E allora che fare? Cosa chiedere? Se devo essere sincera ormai sono stufa di lamentele, di critiche, di nefaste profezie che prosperano nel centrosinistra, ma sono anche stufa di chi – sempre nel centrosinistra – non è in grado di fare autocritica, di chi antepone il proprio interesse di rendita di potere (sempre più misero a dire il vero) all’interesse collettivo. Sembra un circolo vizioso in cui si è infilato il Partito Democratico, incapace di ri-coinvolgere i delusi (chi per davvero e chi per comodità) e di liberarsi delle zavorre che appesantiscono oltremodo il cammino e la progettualità.
Ciò che finora è mancato è stato il misurare le grandi culture storiche da cui è nato il Pd con i grandi temi politici attuali: il ripensamento del welfare in una società che cambia (l’aumento della povertà e la disparità tra ricchi e poveri ci interrogano prepotentemente), il ripensamento delle politiche energetiche (non vogliamo il nucleare e allora progettiamo davvero un piano di energie rinnovabili), l’analisi dei problemi e delle prospettive aperte da un processo non frenabile delle migrazioni (perché non è possibile pensare a una nuova modalità di convivenza e di rinnovata sicurezza?).
È davvero il momento di immettere i problemi in un orizzonte più ampio partendo da una domanda che non è più rinviabile: dove va la società?
Non sono mai stata una fautrice del rinnovamento a tutti i costi e fine a se stesso e non ho mai inteso il rinnovamento come un mero cambiamento di visi e date di nascita: rinnovare significa cambiare radicalmente il modo di fare politica, cambiare gli strumenti, cambiare le parole che usiamo, cambiare le orecchie con cui ascoltiamo, cambiare gli obiettivi e soprattutto sentirsi investiti di un compito alto e prezioso, quello di occuparsi del bene comune, non del bene proprio o di qualcun’altro. E penso che oggi più che mai si debba affermare che la democrazia è, come dice Bobbio, il governo della cosa pubblica in pubblico. E quindi pubblici devono essere il dibattito, il confronto, il percorso decisionale.
E allora, di nuovo, che fare nel concreto, nel quotidiano, come partito e come cittadini responsabili?
Come partito democratico credo sia fondamentale ragionare nuovamente sui temi che più ci toccano e che ci appartengono: la convivenza civile e rispettosa delle individualità e delle formazioni sociali; lo sviluppo sostenibile di questo paese; la redistribuzione vera delle risorse; il senso di responsabilità; la laicità intesa come creazione di uno spazio pubblico garantito a tutti e che permetta a ognuno di vivere nel rispetto delle proprie e delle altrui convinzioni etiche e religiose. Temi che sono stati “abbandonati” e lasciati in balìa di chi li ha cavalcati per opportunità o li ha snaturati per mero calcolo politico.
Ma credo anche che non si debba smettere un solo istante di denunciare il modello berlusconiano e il suo sistema di potere e di valori che hanno lacerato questo paese, lo hanno inquinato fin nel più profondo dell’animo, abbassando il discorso politico e impoverendo il confronto fino ad annullarlo, trasformando di continuo la realtà, mistificando il reale, annichilendo il valore della verità, riducendola a quello che si dice e si smentisce. L’antiberlusconismo non è un sentimento di cui avere vergogna ma un modo di vedere questo paese e la politica alternativo allo scempio che il centrodestra ha fatto finora.
Quindi che fare? È importante capire i segnali che arrivano: non è un segnale vedere che a queste europee nel collegio del nord-est Debora Serracchiani prende molti più voti di nomi noti del partito come Berlinguer? E a proposito, senza contestare la persona ma la scelta, che senso ha avuto candidare una persona anziana come Berlinguer che ha fatto il suo tempo, che ha vissuto realtà che non sono più tali? O, di nuovo senza contestare il nome ma il metodo, che senso ha avuto indicare Caronna, segretario regionale del PD, come candidato del PD dell’Emilia Romagna, in un territorio che sta vivendo il travaglio dell’avanzata della Lega e della necessità di ripensare lo stare insieme nel centrosinistra, un territorio che vede l’astensionismo di sinistra aumentare, un territorio che urla il suo desiderio di cambiamento affidandosi ad amministrazioni avventurose o a liste civiche?
Ma segnali sono anche le difficoltà del Partito Democratico di radicarsi, di ritrovare un’organizzazione che gli permetta di coinvolgere e appassionare le persone; segnali sono i linguaggi comuni che cominciano a mancare e che con difficoltà si cerca di ricostruire; segnali sono i compromessi che non si trovano e le decisioni che non si prendono.
I temi come si vede sono due e si intersecano e intersecano la vita di noi cittadini e aderenti a un partito di centrosinistra: gli argomenti e le parole che usiamo da una parte e l’organizzazione che ci diamo dall’altra. Il Pd ha vissuto in questi 15 mesi di vita il travaglio di costruirsi e di parlare: facendo non bene né l’una né l’altra cosa.
O meglio, faticando a fare l’una e l’altra cosa.
Lo scossone delle dimissioni di Veltroni è stato potente e ha dato a Franceschini una responsabilità non da poco: conciliare i due livelli (gli argomenti e i problemi da affrontare, l’organizzazione da darsi e da rafforzare) per permettere al PD di non soccombere alla corazzata berlusconiana. E lo ha fatto bene: ha rimesso al centro i problemi e i temi reali, dettando l’agenda politica, non rincorrendo Berlusconi ma obbligandolo a confrontarsi sulla realtà delle cose e mettendo in campo un’alternativa credibile, sostanziosa e sostanziata. E nello stesso tempo ha permesso al partito di provare a costruirsi nel rispetto delle autonomie e delle diversità presenti sull’intero territorio nazionale.
Ricordo con orrore le prime riunioni del PD, all’epoca delle primarie dell’ottobre 2007, in cui si diceva “dal nazionale (Roma) arrivano le seguenti indicazioni”, “dal regionale (Bologna) arrivano le seguenti decisioni”. Oggi le cose sono cambiate, non completamente e non definitivamente, ma sono cambiate: a Parma abbiamo lavorato nei circoli per individuare i candidati per il consiglio provinciale e questo ha portato il PD a essere il primo partito in città (la cui amministrazione eletta solo due anni fa è di centrodestra) in 10 collegi su 11.
Credo che sia ora di svegliarsi, come cittadini e come democratici. Il nostro paese sta vivendo un’emergenza: alcuni amici dicono che è troppo tardi, che solo la catastrofe porterà alla catarsi e a una nuova nascita. Io non sono d’accordo: la situazione è grave, gravissima, ma la via d’uscita non ci è ancora stata preclusa. È ovvio che è il momento della responsabilità.
Diceva Tocqueville che il più grande pericolo che la democrazia può correre è quello del dispotismo della maggioranza che nasce dal trionfo dell’individualismo: ogni individuo si accontenta di curare il proprio particulare disinteressandosi di ciò che lo circonda e abdicando al suo ruolo di cittadino che decide. In una situazione di benessere questo porta a lasciare le decisioni a una maggioranza che perpetua se stessa e che viene riconfermata in elezioni formalmente democratiche.
Il sistema rappresentativo lo permette e lo garantisce (e per fortuna) ma la politica non è una “cosa” che non ci riguarda perché portiamo a casa uno stipendio tutti i mesi (chi ci riesce…), la politica è l’occuparsi di noi e dei nostri concittadini, è la promozione dell’interesse generale (e cioè del benessere di tutti, nel rispetto dei diritti di tutti e nella promozione solidale delle condizioni di tutti). La politica, come la intendeva De Gasperi, è una missione e, riprendendo Max Weber, si deve tornare all’idea di vivere per la politica (e cioè dedicarsi alla missione di occuparsi della comunità in cui si vive) e non vivere di politica, intesa meramente come un modo di sbarcare il lunario, cosa che ha inquinato il sistema partitico di questo paese, dando della politica un’immagine di mercato di rendite e posizioni (non ultime le recenti elezioni di Mastella e De Mita a Bruxelles…).
Ma è evidente che il compito è immane: in un paese in cui la maggioranza si riconosce nel modello egoistico e volutamente immorale proposto da Berlusconi, in un paese in cui una buona parte di cittadini afferma con convinzione che la politica è una cosa sporca e che “tanto sono tutti uguali” (e cioè ugualmente disonesti), non è facile interagire. Però non si può rinunciare: la posta in gioco è alta, la sfida è impari, ma non devono essere motivi sufficienti per rinunciare.
E allora, per concludere, che fare ora?
Tenere il timone della proposta politica a livello nazionale, sui temi fondanti e fondamentali per la vita di una collettività, prevenendo le sparate di Berlusconi (ma anche quelle di Di Pietro); riattivare il dibattito a livello locale per elaborare una politica condivisa e per attivare un circolo virtuoso tra i livelli del PD; ripensare l’organizzazione territoriale del partito partendo dalle esigenze di ogni singolo territorio; avere il coraggio di lasciare a casa alcune persone che dalla politica hanno avuto ormai tanto, forse più di quanto abbiano dato.
Sono passi concreti e sono segnali che l’opinione pubblica si aspetta e che marcherebbero finalmente la vera differenza tra il Partito Democratico e il partito di Berlusconi, sempre tenendo a mente che un partito non è grande solo per il numero di iscritti e di elettori ma è grande per le idee che porta. Come ci ha insegnato Obama, è nei grandi orizzonti che nascono le grandi politiche e le speranze che muovono gli animi e che possono cambiare davvero le cose.
Elena Antonetti, 36 anni, parmigiana, assegnista di ricerca in Storia delle Dottrine Politiche all’Università del Piemonte Orientale. Attualmente segretaria del circolo PD di Parma Centro e capogruppo del PD nel consiglio di quartiere di Parma Centro.