La Lettera

Per ripulire la democrazia inquinata i ragazzi hanno bisogno di un giornale libero

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È abbastanza frequente che editori della carta stampata chiudano i loro giornali. Anche a me è capitato quando dirigevo “L’Avvenire d’Italia”, e oggi si annuncia una vera e propria epidemia a causa della decisione del governo di togliere i fondi all’editoria giornalistica. Ma che chiuda Domani di Arcoiris Tv, che è un giornale on line, è una notizia …

La Lettera

Domani chiude, addio

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L’ironia di Jacques Prévert, poeta del surrealismo, versi e canzoni nei bistrot di Parigi, accompagna la decadenza della casa reale: Luigi Primo, Luigi Secondo, Luigi Terzo… Luigi XVI al quale la rivoluzione taglia la testa: “Che dinastia è mai questa se i sovrani non sanno contare fino a 17”. Un po’ la storia di Domani: non riesce a contare fino …

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Teatro bene comune per il palcoscenico di dopodomani

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Teatro Municipal - Foto di Elton Melo

“Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”. Parole di Leo …

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Il governo Berlusconi non è riuscito a cancellare l’articolo 18, ci riuscirà la ministra Fornero?

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Il governo Monti ha perso il primo round con Susanna Camusso che fa la guardia alla civiltà del lavoro, fondamento dell’Europa Unita. Sono 10 anni che è morto Marco Biagi, giuslavorista ucciso dalle Br. Si sentiva minacciato, chiedeva la scorta: lo Scajola allora ministro ha commentato la sua morte, “era un rompicoglioni”. Rinasce l’odio di quei giorni? Risponde Cesare Melloni, …

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STUDIARE E VIVERE NELL’ITALIA MULTIETNICA

14-07-2009

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Da bambina sono stata “straniera” in Perù, ma giusto il tempo di imparare la lingua e fare amici. Marcata dall’esperienza di essere vista come “Altro”, cerco istintivamente colleghi di esperienza, compagni del viaggio attraverso l’identità interculturale. Un iter interiore, senza destinazione finale. Sfoglio il giornale: pare che una certa Italia ufficiale fatichi a riconoscersi “multietnica”. Siamo 60 milioni di italiani, 5 milioni di migranti: 4 milioni regolari (7%), e un milione di irregolari. Si coniano nuove espressioni riferite ai migranti di seconda generazione, “nuovi italiani”. Ma sono nuovi italiani anche coloro che per la prima volta si confrontano con l’Altro.
Attraverso un lembo di centro-Italia in treno e li cerco. Figli di Altri, nati qui ma considerati “diversi”, migranti intellettuali, di passaggio, in un’Italia ufficiale che ha di meglio da fare che investire nell’educazione pubblica e nella cittadinanza senza gerarchie di diritti.
La mia vicina sull’Eurostar sta sfogliando la biografia di Obama, mentre si accarezza le treccine infiocchettate di colori. Molto argento sulla pelle, ombretto celeste sugli occhi, e un raffinato tailleur bianco. Il sorriso sboccia lento, assorto nella lettura. Incrociamo uno sguardo, ci conosciamo. Le passioni di Merafe, del Ghana, sono tre: i diritti umani, l’eleganza nel vestire, e l’uomo immaginato come Denzel Washington, “sexy, talentoso, fedele e spiritualmente inquieto”. Merafe è trentenne, laurea in Scienze Politiche all’università di Accra, Master in Diritto Internazionale all’università di Manchester, PhD in Diritti Umani alla Scuola Sant’Anna di Pisa. Tesi sulla condizione dei bambini soldato durante la guerra civile in Sierra Leone.
“Vengo da un villaggio di campagna. Non sono solo l’unica detentrice di un PhD. Sono anche l’unica donna laureata. E con studi fuori. I vicini e gli amici fantasticano su di me”. Incuriositi dal suo destino, che prescinde al momento da pentole e pannolini, le rivolgono poche domande. Scartano pacchi regalo dai suoi viaggi di lavoro: lenzuola made in Italy, robot di cucina (“perfetto per le torte alla banana per tutto il quartiere”), scarpe di vernice. “I ragazzi in Ghana non mi fanno la corte. Aspettano che li scelga io. Metto loro soggezione. Una noia agghiacciante.”
Merafe svolge corsi di specializzazione su diritto umanitario a New York e Stoccolma. Ma lo sbarco in un aeroporto italiano è uno shock antropologico. L’uomo in divisa scatta verso di lei, le stringe l’avanbraccio, “mi segua, signorina”. Nella stanza chiusa dei sospettati, le chiede cosa è venuta a fare in Italia, quanto si sofferma, come si mantiene. L’indice esita prima di battere a macchina i dati. Il poliziotto non comprende lo spelling del cognome in inglese. “Le lingue franche esistono. Inglese, francese, spagnolo. Non si può pretendere di interrogare uno straniero di passaggio in Italia nella lingua nazionale”, commenta Merafe. Impacciato, l’uomo diviene sbrigativo. “Vorrebbe che gli dicessi che sono prostituta. Io vesto Gucci come quelle di Milano. Ma devo spiegare, ogni volta, che non solo quello che pensano. O quello che vorrebbero.”
L’Eurostar si ferma in mezzo alla campagna emiliana. Ondeggia all’indietro. Un distinto signore napoletano sorride e commenta: “Il treno ha perso il cappello, e torna a riprenderselo”.

Donne mussulmane di prima generazione: il velo come laboratorio
Come si riconoscono, come si autopercepiscono le donne migranti, in questa Italia sconcertata? Quali “parole” per dirsi donna in una terra che fatica ad accettare le differenze culturali e religiose?
A giugno, al prossimo festival di Mantova, andrà in scena “la parola migrante al femminile”, è una produzione teatrale della fondazione Aida di Verona. Sintetizza un anno di lavoro attorno alle “parole”, narrate da donne mussulmane residenti nella città scaligera e provenienti da Algeria, Marocco, Palestina, Siria, Brasile. Migranti di prima generazione, cioè nate in paesi lontani, arrivate in Italia da poco. Spesso in condizioni lavorative precarie, con un livello di istruzione medio basso.
Questa elaborazione drammaturgica è l’ultima tappa del progetto europeo ReconArt, “riconciliazione attraverso l’arte”: esempio di mediazione culturale che testimonia come il teatro possa produrre trasformazione e generare interrogativi sulla natura del confine che una donna migrante porta dentro di sé, e sulle possibilità che questa ha di condividere i suoi valori con donne italiane.
Parole e sguardi di donne che si raccontano, tra il mondo nascosto e il mondo sacro del Hijab: il velo.
Il velo segna i confini del corpo e il rapporto con la spiritualità. Oltre il velo,gli sguardi scrutano, alludono, giudicano. Benevoli, o di condanna.
Dietro il velo, scorrono parole per raccontarsi l’infanzia e ricordare ciò che non ritorna. Parole per dire tenerezza, tristezza, nostalgia, paura, sogno, morte, Dio.
Parole solo in lingua materna. Perché ogni lingua materna ha la sua maniera di dire umanità, di esprimere giubilo o dolore, di trovare un senso nel fluire degli eventi.
Non è la stessa cosa ragionare, amare, sperare, lavorare, disperarsi, pregare in inglese, in italiano, in sik, in arabo, in quechua, in cinese, in tedesco, in maori. Le parole in lingua materna sono mondi unici.
Evocano una storia intrasferibile, emozioni ancestrali, messaggi dalla potenza tellurica. Le parole in lingua materna danno sicurezza. Come il latte di chi per prima le ha pronunciate per noi.
Danno autostima in quanto femmina generatrice, fonte di latte vitale. Conferiscono coscienza identitaria di gruppo, senso di non essere soli, in una giungla di rancori inespressi.
Parole di migranti attraverso il velo, come musica, poesia e canto. Come sospiro di innamorata e turbamento di ventre gravido.
Parole, per partire. Per dire “torna presto”. O “riposa in pace”. Per celebrare la primavera della pubertà e la rottura de sentimenti.
E anche il silenzio del velo. Il raccontare del velo lunghe storie di genitori e fratelli lontani. E quelle dei nonni mai conosciuti, morti.
E, a partire dal velo, lungo il processo mai concluso di laboratorio, viene la catarsi. Si svolge doloroso il riconoscimento e la riconciliazione tra donne.
Proprio perché c’è il velo, perché c’è la differenza si può balbettare “parole nuove insieme”. Parole di rispetto e valorizzazione della diversità.

Parole di donna mussulmana di seconda generazione: la cittadinanza con il velo
Molto diverse sono le parole di donna migrante di seconda generazione. Degli ottocentomila giovani stranieri presenti in Italia, metà sono nati qui. Altri sono figli di coppie miste. Quasi cinquecentomila sono giovani donne, tutte con studi superiori, moltissime con laurea e dottorato, alcune di fede mussulmana. Mi sento vicino a loro perché abbiamo molte parole in comune e non le trovo tristi. Molte di loro sono lucide fino alla crudeltà. Ed autoironiche. L’autoironia è molto di più di autostima e di sicurezza personale. E’ talento signorile. E’ disarmo culturale, quindi è strumento superiore di dialogo, nell’arcipelago incomunicante di questa nostra società. E quando l’autoironia si abbina al saper giocare con “le parole”, contemporaneamente con quelle della lingua materna e con quelle del dizionario italiano, non c’è da meravigliarsi se ne esce uno scherzo: Forza Italia.
No, non è un richiamo al defunto partito fondato da Berlusconi. In questo caso, Forza Italia è la traduzione di Yalla Italia, il supplemento mensile del settimanale milanese no profit Vita, che a giugno – quando a Mantova andrà in scena la percezione dell’hijab – compirà due anni nelle edicole.
In Yalla Italia incontro le parole di Rossmea Solah, specializzanda in lingue orientali a Napoli, figlia di una italiana e di un egiziano. Vi leggo commenti di Hassan Bruneo, laureato in ingegneria biomedica, di sangue materno marocchino e di sangue paterno più italico del padano di Pontida, Bossi. Di Lubna Ammoine, iscritta a medicina, di madre tedesca e padre siriano.
Con loro, tanti ragazze e ragazzi di varie pareti d’Italia. Sotto la regia di Paolo Branca, docente di Letteratura araba alla Cattolica di Milano, e Martino Pillitteri, responsabile della comunicazione dell’associazione italo-egiziana, affrontano – da un’ottica mussulmana, in quanto giovani di seconda generazione- temi serissimi: religione, rapporti di genere, emarginazioni dei migranti, stragi di Gaza, mortificazione della democrazia e della donna in molti paesi arabi e in Italia. La ferocia delle frange terroristiche islamiche. Gli stereotipi della nostra politica quando si sforza di essere becera. L’uso politico della paura quando i mezzi di comunicazione riescono ad essere osceni.
Litigano alla trasmissione Anno zero di Santoro, e si fanno intervistare anche dal New York Times (9 aprile 2009). Controinformazione che cozza contro mille difficoltà, in un gioco di potere asimmetrico rispetto a chi costruisce la propria fortuna politica, presentandosi come “la fabbrica della sicurezza”. Le loro parole si scontrano contro i pregiudizi di chi ci guadagna politicamente al mercato della paura, facendo balenare l’idea che con il riconoscimento di società multietnica si starebbe nutrendo un coccodrillo nella speranza di essere mangiati per ultimi.
Le loro parole di giovani forse non sono totalmente accordi con il politically correct né dei propri nonni lontani (“Ma il bikini si concilia con il burka? E il caftano si può mettere con i jeans?”) né con quello degli amici italiani con i quali condividono la passione per il cinema d’essai e la passeggiata domenicale in Piazza Duomo, con un gelato, sotto gli occhi della Madunina.
Parlano di se stessi. Parlano delle umane empietà. Oltre le parole, anche la gestualità ha la sua importanza, spiega Hassan Bruneo: “Abbiamo pensato fosse utile spiegare anche l’importanza della gestualità. Noi, ad esempio, per dire grazie usiamo un gesto che per un italiano non significa niente. Anzi, assomiglia un po’ al movimento che qui si usa per dire: cosa vuoi? Oppure, per ringraziare, noi mettiamo la mano sul cuore. Cosa che qui, più che un ringraziamento, pare un segnale d’infarto”.
La grammatica della loro scrittura non conosce vittimismo o rancore. Nemmeno quando tocca il tema del difficile inserimento dei mussulmani nel leopardesco tessuto della società italiana. C’è levità nel porgere le proprie idee e riflessioni. E anche nel descrivere i drammi. Conserva la felice confusione dei nostri giorni dove solo un imbecille ha idee chiare e distinte (Cartesio, non abita più qui) sul come attraversare il guado della nostra crisi epocale. Ironici verso se stessi e nei confronti di alcuni difettucci della cultura da cui provengono i loro genitori. Due anni fa, hanno dedicato il primo numero della loro rivista all’humour, riprendendo barzellette su alcune tradizioni stantie retaggio di famiglie e comunità d’origine.
Sono cittadini che studiano e lavorano per mantenersi, quasi tutti nati in Italia da genitori egiziani, marocchini e tunisini, con buona predisposizione alla scrittura e alla creatività.
Nella grande maggioranza si dichiarano musulmani, più o meno professanti. Poliglotti, con l’espresso desiderio di avere uno strumento con il quale esprimere il proprio punto di vista sull’integrazione Yalla Italia è quindi il luogo dove si raccontano, cercando un dialogo coi loro coetanei e con l’intera società in cui vivono.
Riservano altrettanto humor per le rancide frasi fatte di cui è condito il nostro quotidiano nei confronti dei migranti. Una risata non seppellirà il virus della intolleranza paludata, l’arroganza triste del prepotente e ottuso. Non basta essere nel giusto per avere ragione. Né essere giovani, per avere spazio. Ma è possibile essere militanti nel territorio globalizzato, che supera ogni piccolo orto delle vecchie generazioni. E, autoironici e ironici verso tutti e verso tutto. Non è dialogo quello che pone l’angosciato interrogativo: “Cosa abbiamo in comune noi due? “. Forse – come avete fatto voi di Yalla Italia – il primo numero del dialogo deve chiedere all’Altro: “Dimmi, cosa ti fa ridere di me?”

Porto il velo, adoro i Queen
A sorpresa, nella redazione di Yalla Italia, c’è una preminenza femminile. La collaboratrice più nota ai frequentatori delle librerie è Sumaya Abdel Kadar, 30 anni. Porto il velo e adoro i Queen, dice il titolo del suo libro (Sonzogno editore). Nata a Perugia da genitori palestinesi, sposata con due figlie, vive a Milano dove, dopo biologia, sta conseguendo la seconda laurea in Scienze politiche. Lontana anni luce dagli stereotipi di chiusura con cui una certa pigrizia mentale bolla le donne mussulmane migranti. Perché manda le figlie dalle suore orsoline? Teme che perdano di vista i valori di base comuni tanto al cristianesimo quanto all’islam: il rispetto per l’altro e il senso di Dio.
Si può portare il velo ed essere professionista apprezzata? Si possono conservare aspetti della propria identità culturale e religiosa, senza rinnegare i princìpi di cittadinanza del paese che ti ospita e che sarà tuo per sempre? Sumaya ci crede, e lotta perché tutti – cittadini italiani e cittadini provenienti da altri paesi e culture- escano dalla prigionia del vecchio bozzolo, ed ogni crisalide possa fiorire in farfalla diversificata, con i propri colori distintivi.
“L’identità smette così di essere agitata come un feticcio”, scrive Gad Lerner, “ne viene riconosciuta l’evoluzione concreta nella vita della gente e nella contaminazione reciproca, smentendo gli spacciatori di un’appartenenza rigida, antistorica, che riduce il passato a miti contrapposti”.
Con la seconda generazione alla Sumaya, comincia il passaggio dall’islam “in Europa” a un Islam “d’Europa”? Presto per dirlo. In questi tempi di titoli bancari tossici e di bozzoli mentali rinsecchiti, ogni piccola azione è una goccia d’impegno. Senza velleità e senza proclami. Anzi, accettando le proprie contraddizioni e gli ibridismi. “Non c’è bisogno che qualcuno venga a dirmi che noialtri siamo confusi. Certo che lo siamo. Il Paese in cui nasci e cresci ti dà mille problemi, il paese d’origine dei tuoi te ne dà altri. Insomma, ti sballottano da una parte all’altra e nessuno ti riconosce. Da un lato ci sono gli italiani (quelli che dovrebbero essere i tuoi concittadini), che ti fanno le solite domande del tipo se sotto il velo hai i capelli, come fai a fare sesso vestita così e amenità simili. Roba da far cadere le braccia. Dall’altro ci sono i parenti, o gli arabi in generale, che ti assillano perché sei ‘troppo occidentale’. Ricordo quando uno dei miei quattordici zii mi domandò: Ti sei accorta che stai diventando come loro? Caro zio, se sapessi che loro mi accusano di essere come voi!”
Riguardo alla mortale lentezza e tortuosità della nostra burocrazia, Sumaya ha scritto a Napolitano: “Caro mio presidente, perché dopo 30 anni non ho ancora la cittadinanza ufficiale italiana?”. Per l’8 marzo ha partecipato con altre colleghe a varie tavole rotonde, raccontando storie di donne mussulmane-camaleonte, che in Italia uniscono le due culture di origine e ospitante per creare ricchezza economica e consolidare il pluralismo culturale.
Seconda generazione, cittadinanza difficile ma a testa alta: dialogare in italiano, sognare in arabo, cantare in inglese.

Fernando
E’ domenica pomeriggio in Borgo Stretto, a Pisa. Il mercatino ambulante con gli incensi indiani, i lampadari di cartapesta gialla, gli orecchini e le statue d’ebano africane. In Piazza Santa Caterina trovo allestite bancarelle di prodotti biologici, equo e solidale, Legambiente, cooperative di intercultura, ONG piccole e piccolissime che invocano la pace in Medio Oriente. Girotondi di bambini e volontari sul prato tempestato di margherite. Il sole estivo scioglie tensioni. A due passi dalla piazza, c’è la casa di Fernando, trentenne peruviano brillante, capelli neri sulle spalle, e una cortesia di altri tempi. Non vende, però, maglioncini di alpaca nelle bancarelle come suoi connazionali.
Sulla sua scrivania, biografie di Napoleone, Giulio Cesare, Alessandro il Grande, ma anche “Le avventure di Pinocchio”, di Collodi. Un pelouche di orso bianco sul letto. Sulle pareti della stanza, cartoline della Vergine di Guadalupe, Amburgo, Tokyo, Granada, San Marino. Un poster della Creazione di Michelangelo, e l’immagine di una mamma che bacia il pargolo. Il suo collega, Susilo, indonesiano, seduto sulla sedia, ripassa alla chitarra la ballata “chiudo gli occhi e penso a te”. “Così si impara l’italiano, vedi? Cantando alle ragazze italiane”, scherza Fernando. Butto l’occhio sulla sua tesi, dedicata alla mamma. Titolo: “Human Servoing-Control Neural Networks and Robot”.
“Cosa diavolo significa, Fernando?”
“Ah, tratta semplicemente di come un umanoide può reggere con un braccio manipolatore diversi tipi di oggetti, guidato dalla visione del robot. Ma il punto vero è che se vogliamo che i robot umanoidi interagiscano efficacemente con un ambiente non strutturato, devono avere l’abilità di imparare e generalizzare da esperienze previe. Dobbiamo costruire la loro coscienza”. Fernando ha una laurea in Ingegneria Meccanica all’università di Huancayo, un Master in Intelligenza Artificiale all’università di Brighton, un altro Master in Robotica Mobile all’università di Vitoria (Brasile), e ha lavorato per tre mesi alla Waseda University di Tokyo in “sistema di controllo del robot bipede”. Si è recentemente dottorato in Tecnologie Innovative alla Scuola Sant’Anna. CD sparsi sul comodino. “I tuoi gusti?”. “Mozart e heavy-metal: insomma, i contrasti della vita”.
“E adesso cosa farai?”
“Vedrò. Mi piace molto l’Italia. Mangerei solo penne al ragù. Ma la ricerca qui è penalizzata, nel mio settore non troverei molte opportunità. Magari metto su una pizzeria!”
Osservo, sullo scaffale, il gioco “Costruisci il tuo personal robot I-DROID 01 Vede-sente-parla-si muove come vuoi tu”.
“Fernando, cos’è per te lo studio?”
“E’ un amore. Lo studio mi ha salvato la vita e mi ha fatto conoscere un po’ di mondo. Non si può riuscire nello studio senza perserveranza, ossessione, vocazione”. Fernando ha tre fratelli; la madre, maestra elementare, è vedova. Vivevamo a Huancayo, una città di trecentomila persone nel cuore delle Ande, a 3259 metri sopra il livello del mare. In una casa al lato dell’ufficio regionale dell’educazione. I terroristi di Sendero Luminoso, negli anni Ottanta, facevano esplodere della dinamite davanti al locale. I vetri polverizzati. “Pezzi di cemento venivano scagliati sul tetto liscio della mia casa. Salivo su e li toccavo”. L’indomani, gli impiegati ricollocavano le finestre. E la settimana dopo, Sendero le faceva saltare. Alla terza volta, capendo che era inutile curare le ferite dell’edificio, hanno continuato a lavorare senza vetri.
Fernando voleva conoscere il mondo oltre le Ande: l’inglese era indispensabile. “A Huancayo c’era l’istituto Charles Dickens, 9 euro al mese per due ore al giorno di lezione, da lunedì a venerdì. “Mamma, iscrivimi, ti prego! Voglio sapere l’inglese”, le dicevo. Lei mi guardava intristita: certo, non c’erano soldi. “Ma hanno detto che lo studente che ha il massimo voto, non paga il mese successivo!”. Prima l’ho convinta a credere che sarei sempre stato il più bravo: in effetti, ho studiato gratis inglese per due anni”.
“Com’era studiare nell’epoca del conflitto armato interno?”
“La situazione politica degenerava ovunque, anche nella mia città. Molti alunni non completavano il ciclo di studi all’istituto. I pochi rimasti, avevamo lezioni nell’orario serale. Lei mi guardava preoccupata. Certe notti erano una sparatoria continua. Ma le dicevo di fidarsi: sarei sempre tornato a casa dopo la lezione. Anche se a volte saltava tutto per via del black-out. Sendero dinamitava le torri della luce. “Ragazzi, tutti via”, concludeva il professore. Allora prendevo la linterna e cercavo il cammino verso casa.
Poi sono andato all’Universidad Nacional del Centro, sempre a Huancayo, studiavo ingegneria meccanica. Si andava sempre in bagno in gruppo, avevamo la psicosi di essere uccisi da senderisti. Su 16mila alunni, ne erano scomparsi 120. E spesso Sendero entrava e faceva i cosiddetti “processi popolari”, dove sparava a freddo ai leaders studenteschi di cui sospettavano antipatie. Chiunque osteggiasse il loro indottrinamento, era considerato “reazionario” e non aveva scampo. Nuovamente, mi toccava alle volte interrompere lo studio e tornare a casa. Il giorno dopo, doveva essere migliore.
Poi arrivò l’esercito all’università, per ripulirla dai senderisti, e non solo. Ogni volta che si usciva per fare fotocopie, vedere amici o riposarsi, bisognava fare una lunga fila di controlli: mostrare il tesserino di studente, aprire lo zaino per controllare la presenza di dinamite o di propaganda terrorista. I soldati sfogliavano lentamente i nostri quaderni per accertarsi che non fossero un alibi: sì, effettivamente, ogni giorno prendevamo appunti. Stavano con le mitragliatrici a fare le ronde sui blocchi alti dell’università. Li guardavo dal cortile: pareva di essere in una prigione. Ma eravamo all’università. E forse non ci avrebbero ammazzati, come i senderisti, lungo i corridoi. Forse. Se da una parte i terroristi imponevano un unico discorso politico, dall’altra i soldati proibivano di parlare di politica, in qualsiasi senso. Non ci potevamo riunione in più di tre persone: eravamo immediatamente sospettati e potevamo essere portati via”. Secondo la Coordinadora Nacional de Derechos Humanos, oltre 31 studenti universitari vengono sequestrati e fatti “scomparire”. Alcuni gettati dagli elicotteri dell’esercito in piena giungla.
“Difficile studiare in tempo di guerra. Hai vissuto il dilemma: si studia o no? Si entra nella guerra o la si guarda da fuori?”
“Tutti l’abbiamo vissuto, specialmente nelle Ande. Mio cugino sceglie di arruolarsi a soli 19 anni. Lo mandano in un’altra regione “calda”, fra le Ande e l’Amazzonia. Un giorno, viene sequestrato dai senderisti assieme ai compagni. Li hanno torturati per giorni, con l’idea di ammazzarli quando l’avessero considerato opportuno. Un po’ come facevano i soldati con i senderisti nelle prigioni dello Stato. Mio cugino, dopo molte botte, ha una intuizione: si finge pazzo. Più lo bastonano, più lui ride. E mangia escrementi di animale. Loro smettono di picchiarlo, forse pensando “in fondo, gli abbiamo già fottuto il cervello”. E all’improvviso arriva l’esercito, fa fuori i senderisti (nessuno veniva arrestato), liberano mio cugino. Lui va in cerca del suo amico, all’altro lato dell’accampamento. Lo trova, e si sente dire: “mi hanno tenuto gli elettrodi sui testicoli, a bassa intensità, per tre giorni. Sono impotente. Ti prego, uccidimi”. Lui gli spara. Adesso fa il meccanico a Lima. E’ intelligente ma, come dire, un po’ pazzo. Ha ancora la violenza a fior di pelle. Perde il controllo in un attimo. Mi dispiace per lui. E’ bravo a raccontare barzellette alle ragazze, ma loro dopo poco lo lasciano. Perchè non sa discutere, urla, è aggressivo. Ha incamerato troppo orrore. E per amare, ci vuole pace, dentro. Forse in Italia i nostri coetanei non si rendono conto della fortuna di studiare in tempo di pace”.
I compagni di casa sono Philip, della Macedonia, che studia economia aziendale. Dorme di giorno e studia di notte. Fino a poco tempo fa, spettegola Fernando, dopo un bicchiere di vino si lamentava del fatto che la Macedonia e il Terzo Mondo non esistono nei media. Finalmente ha trovato la ragazza e gli sono venute le gote rosse. Gli altri compagni sono cinesi: si fanno vivi in cucina solo per mangiare, e si rintanano nelle stanze. Hanno orari precisi, da militari. E nessun complesso. “Arriveranno lontano, ci supereranno, sono incredibili. Ma mentre camminiamo insieme, non li conosciamo”

Corso. Italia.
Siedo ad un bar di Corso Italia, Pisa, assieme ad Esther, romana de Roma, madre nata ad Albignasego (PD) e padre della Guinea Equatoriale. Lungo il Corso, braccia allacciate e passo da lumaca per i ventenni in amore, inebriati dal profumo di gelsomino che accarezza sofficemente la città. Gli altri ragazzi, quelli con la testa sul collo, si affrettano spingendosi con appunti e fotocopie, cambiando canzone sull’I-Pod, lasciandosi per telefono. Affollano le librerie dell’usato e le pizzerie al taglio ma la vera sensazione è il kebab di Piazza San Francesco, gestito da pachistani che fanno morire dal ridere i clienti con battute geniali, nonostante ascoltino in orario continuato un CD di canzoni dalla timbrica alquanto drammatica. La fila fuori dal kebab si mantiene costante per tutto il giorno. Nella fila, si fuma, ci si bacia, si mastica una Big Babol, si parla al cellulare. Ma vale la pena aspettare il proprio turno. A Lucca il sindaco ha vietato la vendita di kebab in città, per “valorizzare la cucina locale”. Ci sarà un motivo per cui la cucina lucchese non è famosa nel mondo?
Quanti ragazzi: accenti sardi, romani, toscani, siciliani, napoletani, si fondono sopra le teste tinte di biondo, di arancio, rasate a zero. “Mi aiuti nell’attacchinaggio?”, scotch e fogli, e via a tappezzare la città: cerco posto letto, cerco lavoro qualsiasi purchè onesto, cerco amici con cui parlare in inglese, offresi baby-sitter. Anche sopra le scritte Livornesi colla forfora. Il cuore della città sono loro. Gli adulti e gli anziani siedono sulle cattedre e alle casse dei negozi. Scompaiono di notte, quando il Lungarno si accende di luci, e gli studenti si siedono dappertutto con la birra fresca nel bicchiere di plastica. Nelle loro sguaiate risate, si intuisce la nulla voglia di finire il periodo universitario. Ma essere universitario non è più nè prestigioso nè utile come una volta: è un parcheggio che costa 500 euro al mese meno spese per una stanza singola
Ed eccoci con Esther a specchiarci in questo Corso. Italia.
La sua teoria sulle società multiculturali è che “siamo tutti persone normali con storie anormali”. Rigira il cucchiaino nella tazza del caffè, le unghie curate. Golf ocre, gonna lunga color panna. I capelli ricci stretti un morbido codino. Occhialini tondi, occhi intensi, e la bocca di Angelina Jolie, ma a forma di cuore. “Quanto sei alta, Esther?”, “Troppo per gli uomini italiani: 1 e 83” sorride. “Ogni volta che vado in un ufficio pubblico, presento la carta d’identità. Mi chiedono subito ‘ha un nome difficile, da dove viene?’ E così devo sempre giustificare: mio padre di qui, mia madre di là. Ma è meglio chiarire subito, per mettere distanze”. Liceo linguistico, laurea in Agraria all’università di Pisa, master in Certificazione Aziendale a Roma. Esther è agronoma e svolge consulenze e valutazioni presso una società di Firenze.
Sfoglia con le lunghe dita il giornale di oggi. Sussurra qualche parola che la colpisce: “democrazia autoritaria”, “il muro del Mediterraneo fatto di sistemi radar e aerei”, “esiti imponderabili”.
“Che pensi della situazione, Esther?”
“Valorizzare la diversità è contraddire il potere che omologa, lo status quo. Ogni persona è un universo, anche ogni italiano è un universo. Ma siamo in una dittatura culturale e mediatica. La pubblicità inventa la famiglia del Mulino Bianco. Si inneggia alla chiusura mentale, ad avere paura. Lo stereotipo del migrante è lo ‘sfigato nero’. La chiamano ‘emergenza’ e ‘problema’, ma è lo Stato italiano a non avere l’impianto politico per gestire la migrazione. Quindi ci si distacca dai migranti, si pensa che in fondo si tratti di persone che ‘ne sanno meno di te’. Non riconoscendo i loro titoli di studio, si determina che ‘loro non sanno’. Ma già si tratta di persone, ce le hai davanti, sono qualcuno. Li chiamano ‘immigranti’ quando non sono nemmeno sbarcati. Come si può sottintendere che la ‘italianità’ sia costituita dal colore della pelle? Se fosse così, non ci sarebbe stato la questione dei ‘polentoni’ e dei ‘terroni’ per decenni. Si fa finta di avere sicurezza mettendosi i paraocchi. Ma l’Italia non è questa: lo fanno solo credere, cercano di imporla. Io chiedo solo di aprire le finestre e guardare la realtà. Questa è una politica impiantata sull’ignoranza della storia altrui, ma anche della propria”.
Oltre a dare ripetizioni di inglese, francese e materie scientifiche, Esther è stata istruttrice per vari anni di danze tradizionali africane con percussioni dal vivo. Per esempio, insegnava lo sabar della Guinea Conakry e del Mali, e lo yorubà, dell’Africa occidentale. Nel tempo si è interessata all’evoluzione di quest’arte. “Vedi, le danze tradizionali vengono insegnate assieme a un ‘contesto’ culturale. Cioè si ballano per un determinato rito. Invece, quando si stacca il passo dal rito, per poter esperimersi liberamente, per fare un autentico discorso di interpretazione, nascono le chiamate espressioni di danza africana: un ibrido fra tradizione e modernità.
Mi interessa molto il discorso di genere nelle danze.
Per esempio, nelle danze tribali africane, se un passo viene fatto da una donna, acquista una forte femminilità. Se viene fatto da un uomo, una forte virilità. I ruoli quindi sono ben chiari. Gli uomini ballano fra di loro, così come le donne, e si mescolano solo nei passi che simboleggiano l’accoppiamento. Poi si separano nuovamente.
Spostiamoci verso l’Occidente. Abbiamo la danza del ventre: il ruolo della donna è assoggettato al piacere dell’uomo. La donna è infinitamente sensuale. E più lei “lavora” in pubblico per sedurlo, più è chiaro che lui ne diventerà, in privato, lo schiavo.
Vediamo la capoeira: è lotta palesata fra maschi, per la sopravvivenza (e chi c’è dietro? L’Africa!). Non è però una lotta interna, come nel caso del flamenco. Questo è una lotta fra i sessi, un gioco drammatico. Ma il conflitto non scoppia mai. La donna è sicura, cortigiana, fiera di non appartenere a nessun uomo: decide lei quando e con chi. Si battono i piedi, nel taqueo, per dire “ci sono anch’io”. Si prende energia dalla terra. Fa pensare al tip tap con la claque, la piastrina di metallo sotto la scarpa (e chi c’è dietro? L’Africa!). Ma il tip tap è il ritorno, ricerca mai conclusa della fonte d’energia. Non la si trova perchè si mantengono i passi elevati. La terra è solo strumento.
E la danza classica? Un continuo sospiro. Non balla la donna: balla l’ideale di donna, una bambina malleabile, sulle punte (ho fatto danza classica per cinque anni: stare sulle punte è innaturale, è una tortura). Qui la donna non è assoggettata all’uomo, bensì ad una certa idea di bellezza femminile: eterea, magra, “non c’è”. E’ tale questa esaltazione dell’ideale femminile, che anche l’uomo vuole essere come la donna. Voglio dire: Roberto Bolle, étoile della Scala, avrà anche un fisico incredibile, ma…ti fa sangue?
Esther scoppia a ridere e agita i cuori di chi passa per Corso Italia.

Azzurra CarpoSpecialista in cooperazione internazionale. Autrice di "Romanzo di frontiera" (Albatros, Roma 2011), magia e realtá delle donne latinoamericane alla frontiera Messico-USA; "In Amazzonia" (Milano, Feltrinelli, 2006); "La Ternura y el Poder" (Quito, Abya Yala, 2006); "Una canoa sul rio delle Amazzoni: conflitti, etnosviluppo e globalizzazione nell'Amazzonia peruviana" (Gabrielli Editore, Verona, 2002); co-autrice di "Prove di futuro" (Migrantes, Vicenza, 2010).
 

Commenti

  1. Ana

    Cara Azzurra,
    mi è piaciuto molto questo articolo, bravissima…
    un abbraccio,
    Ana (Peru)

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