In attesa dell’addio di Berlusconi Fini, Casini, Rutelli potrebbero esercitarsi nel «comizi della ragione e dei doveri». E il Pd? I suoi galletti stagionati non si curano di concordare la loro linea con la segreteria del partito. Se il traghettatore è l’anziano democristiano Letta non si va da nessuna parte
Gianfranco PASQUINO – Tre Galletti nel terzo pollaio
06-12-2010È in corso, disordinata e complessa quanto la politica italiana, la più importante operazione del quindicennio berlusconiano. Viene condotta secondo i canoni scritti delle democrazie parlamentari: una mozione di sfiducia nei confronti di un Presidente del Consiglio che ha smesso da mesi di esercitare le sue competenze di governo, ma che non ha mai smesso di rendere imbarazzante la sua presenza sulla festosa e selvaggia scena italiana e, adesso ne abbiamo conferma (perché saperlo, dovevamo già saperlo tutti, berluscones in testa), sulla meno festosa scena internazionale. A questo punto, forse persino Monsignor Fisichella dovrebbe essere contento: come la bestemmia di Berlusconi anche la sua attività può essere “contestualizzata”, e meglio capita, forse, oserei dire, persino criticata, dal punto di vista politico e spirituale.
La mozione di sfiducia è opera di tre raggruppamenti che identificherò con il nome dei loro leader: Casini, Fini, Rutelli. Alcuni commentatori diranno che si tratta di “prove tecniche” di Terzo Polo. Ovviamente e opportunamente, è proprio così. Queste prove suscitano due curiosità. La prima riguarda la non coincidenza di vedute dei tre leader: Fini essendo bipolarista, Casini non essendolo mai stato e Rutelli essendosi pentito. Dunque, è lecito chiedersi, almeno a futura memoria, dove possono approdare questi tre leader e se rimarranno insieme in un ancora non collaudato Terzo Polo. Se Fini vuole costruire un partito di destra moderno, europeo, decente, quasi democratico, ma anche laico, difficilmente potrà rimanere con Casini e neppure con Rutelli. Deve mirare a scardinare le truppe di Berlusconi. Se, poi, i tre leader sanno fare di conto, è evidente che, se non riescono a cambiare la legge elettorale, dovranno rapidamente trovare altri alleati, strappandoli un po’ di qua un po’ di là, poiché con il premio di maggioranza sembrerebbe ancora possibile che, in campagna elettorale, il Cav. Berlusconi non si mostrerà né indebolito né assonnato, ma sarà tonico e adrenalinico, in grado insieme con il suo più stretto compagni d’armi, Umberto Bossi, di ottenere quei pochi fatidici voti in più che gli garantiscano la maggioranza assoluta di seggi.
La seconda curiosità riguarda il Partito Democratico, che non definirò il “partito di Bersani” per due buone ragioni. In primo luogo, perché oramai le fantasiose formule del governo prossimo venturo vengono più o meno allegramente, formulate da molti galletti, ancorché stagionati, ovviamente a cominciare da D’Alema, ma adesso anche dal suo luogotenente Latorre, poi Chiamparino, Veltroni et al., senza che nessuno si curi di concordare una linea condivisa con il segretario del loro partito. D’altronde, Bersani non sembra neppure particolarmente incline a chiamare i suoi “compagni” a sostenerlo nella lotta per designare il candidato alla carica di Presidente del Consiglio. Nel frattempo, secondo elemento di interesse, è in corso un’Opa ostile nei confronti dell’intero PD condotta da Nichi Vendola all’insegna del più emblematico e menzognero linguaggio berlusconiano con i suoi Comizi d’Amore (sic). Eppure, nella sinistra (chiedo scusa per la parola desueta), di tanto in tanto si leva qualcuno a proclamare che prima vengono i programmi, poi i nomi . Ad esempio, mentre si dipanano tristemente le primarie bolognesi, il vecchio ex-sindaco Guido Fanti, incurante del suo insuccesso decennale, continua a sostenere che non è questione di nomi. Almeno Di Pietro il suo programma scarno e preciso ce lo ha: “via Berlusconi”. Per fortuna, i tre galletti nel Terzo pollaio hanno messo come primo punto programmatico proprio la sconfitta parlamentare, chiara e netta, irrevocabile e irrecuperabile, di Berlusconi. Ma, poi?
Subito dopo, infatti, toccherà al Presidente della Repubblica decidere se è possibile fare affidamento su una nuova maggioranza parlamentare, ragionevolmente operativa e non soltanto equivocamente rabberciata. E Napolitano dovrà anche chiedere, e ricevere, il nome del capo di quel governo. Mi pare che, in assenza di una seria, argomentata, convincente iniziativa politica, siamo alla roulette. Allora, “faites vos jeux”. Mentre certamente cresce l’ira dei sostenitori di Berlusconi per supposti tradimenti, non vedo ingrossarsi il sostegno per l’operazione non soltanto del meritato defenestra mento del miglior amico di Putin e di Gheddafi, ma di sostituzione della sua persona e della sua (in)cultura politica. Magari, Casini, Fini e Rutelli potrebbero esercitarsi in qualche “comizio della Ragione e dei Doveri del cittadino”, e vinca il migliore. Ma se il loro candidato alla transizione, individuato senza nessuna fantasia, è l’anziano manovratore democristiano, il fin troppo leale collaboratore di Berlusconi, Gianni Letta, allora, non mi pare che si possa andare da nessuna parte.
Gianfranco Pasquino, torinese, si è laureato in Scienza politica con Norberto Bobbio e specializzato in Politica Comparata con Giovanni Sartori. Dal 1975 è professore ordinario di Scienza Politica nell’Università di Bologna. Socio dell’Accademia dei Lincei, Presidente della Società Italiana di Scienza Politica (2010-2013), è Direttore della rivista di libri “451”. Tra le pubblicazioni più recenti: "Le parole della politica" (Il Mulino, 2010), "Quasi sindaco. Politica e società a Bologna" (Diabasis, 2011). Ha appena pubblicato "La rivoluzione promessa. Lettura della Costituzione italiana" (Bruno Mondadori, 2011).