Quando a Orly chiamano il volo, corro per evitare la coda, plotoni di ragazzi da ore in agguato. Viaggeremo assieme e non capisco come sia venuto in mente al professore e alle tre signore che li accompagnano, di portarli in gita scolastica alla Caienna. Sessant’anni fa chi partiva per la Caienna sapeva di non tornare. La condanna era per la vita anche se gli anni non arrivavano a dieci: all’ex galeotto si proibiva di riprendere la nave. Nessuno doveva raccontare. Nascevano villaggi di capanne nella foresta. Il sangue si mescolava e ai vecchi prigionieri restava la nostalgia: scappare, impossibile. Per mare tifoni e pescecani; le paludi verso il confine erano e sono labirinti avvelenati. E’ diventato un posto di vacanza: com’è possibile ?
Difficile trattenere la curiosità se il viaggio dura dodici ore. Il professore risponde che la Guayana francese (ma anche le due Guayane accanto: inglese e Suriname) affoga nella foresta di un’Amazzonia non sconvolta dalla speculazione brasiliana. In fondo è territorio metropolitano, municipio di Parigi. Per chiamare Parigi basta un gettone. Le leggi sono francesi e i francesi amano la natura. L’amore deve cominciare a scuola, ecco la gita. Insomma, discorsi così. Avevo preso l’aereo per raccontare di un’ Ariane che stava per depositare in orbita il satellite destinato ad allargare le bande delle comunicazioni d’Europa, videotelefoni, mille canali TV. Avevo accettato il viaggio tecnico-noioso perché affascinato dai brividi che accompagnavano un nome maledetto nei romanzi delle giovinezze di una volta: Emile Zola e il suo Dreyfus, storia di un capitano accusato di tradimento quando non aveva tradito. Nella Parigi fine Ottocento é condannato a scontare il bagno penale all’ Isola del Diavolo, mare della Caienna. E poi i libri di chi muore lasciando pagine strappacuore; e chi scappa per inventare un romanzo di bugie, Henry Carriere, detto Papillon. Imbottiglia racconti di altri galeotti, diventa un best seller e un film. Montagna di soldi scialacquati in Venezuela. Ormai il secolo è un altro e se un liceo di La Rochelle sceglie la Guayana per il viaggio culturale, e se i giornalisti volano in Guayana per testimoniare il futuro nello spazio, la foresta dalle nebbie bollenti strette all’equatore, sbiadirà i ricordi come fantasmi di una inciviltà svanita. Pensieri di chi arriva nel posto sconosciuto, eppure la realtà è sempre diversa.
Il filo di un canale divide la Caienna in due città, quasi una frontiera. Abito nella città dalle abitudini bianche, torpore della colonia assonnata tra mare e foresta e lo smarrimento di una piccola provincia francese nascosta sotto l’aria condizionata, viali deserti fino a quando non tramonta il sole e si accendono grappoli di lampioni. Gendarmi dalla tenuta coloniale passeggiano in calzoni corti. Calore insopportabile. Tutto qui ? Due passi dopo il ponte che attraversa il Crique, fiume che taglia la città, ecco la capitale immaginata da lontano. Tetti di latta. Donne e uomini fumano, carte in mano o lavorano a maglia al riparo di verande pronte a crollare. Dietro le finestre illuminate dei bordelli, le ragazze ridono sotto le pale dei ventilatori. Una giostra volante fa girare seggiolini vuoti mentre i tamburi del merengue improvvisamente tacciono e la voce di Yves Montand racconta le foglie morte, Parigi dei maglioni neri di Simone de Beuavoir e Juliette Greco, sempre cinquant’anni fa. Il tempo sembra fermo ma non è vero. Cerco tra le facce arabe, cinesi, profughi del Laos negli anni della guerra Vietnam, indios chiari, indios marron; cerco il sorriso sdentato di un discendente di chi non ce l’ha fatta a scappare quando la Guayana era l’inferno. Incontri impossibili, ma il turista sentimentale non si arrende. Ascolto racconti di racconti. Leggende sulla sopravvivenza di sei, dieci forse venti «bagnards » (galeotti del bagno penale) ai quali hanno tagliato le catene quando le grandi prigioni sono state chiuse, ancora cinquant’anni fa. Erano ragazzi dalle mani sporche e sono invecchiati. Vegetano nella città non francese troppo stanchi per cercare l’oro fra le paludi della febbre gialla o per rincorrere bellissime farfalle che i visitatori portano in Europa millantando cacce miracolose. L’ accento del «vieux pays», Parigi perduta, si impasta coi dialetti precipitosi di chi mescola le lingue inventando l’esperanto dei poveri: il creolo un po’ olandese dei clandestini del Suriname o il portoghese di chi scivola attraverso i confini spugnosi dell’Amazzonia brasiliana. Ma la Francia e l’Europa non sono così lontane, almeno nei caffè dove da ogni specchio sorridono le facce di protagonisti delle nostre abitudini, enfants du pay, nati e celebrati qui. Florent Modula, centrocampista che il Lione ha venduto al Chelsea, quattro volte campione di Francia, motore della nazionale. Guai fare domande: mi trascinano sul campo dove ha tirato i primi calci. C’è anche il vecchio Henry Salvador, inventore della bossa nova, figlio di un guardiano del penitenziario: la sua voce ha sciolto i languori di tre generazioni.
Nell’albergo attorno alla base spaziale di Kourou (60 chilometri dalla capitale) un ingegnere italiano spiega, che se in passato dalla Guayana si scappava, adesso arrivano da ogni paese attorno. Il cosmodrono è diventato il volano di una ricchezza più immaginata che reale, ma è lo specchio al quale nessuno resiste: quei giganti che spariscono nelle nuvole. Apparizioni nella città del futuro. Tennis, piscine, laboratori sofisticati come nell’altra America. Intanto arrivano cercatori d’oro, tagliatori di mogano, turbe di affamati di ogni Amazzonia. Neri- Marrons accampati nei gironi delle baracche rimodellate sulle antiche baracche dei galeotti. Perché Kourou era un penitenziario duro. Sono rimasti le spoglie del mondo di ieri che abbracciano il mondo bianco di domani. Nel cerchio d’oro di Ariane vivono mille tecnici europei paradossalmente prigionieri della stessa filosofia che incatenava i penitenziari. Rovesciata: la chiave si gira da dentro. Vivere fuori, quasi impossibile. E dentro è un ghetto di lusso scandito da abitudini la cui lontananza psicologica col resto del paese è più larga della distanza Caienna-Parigi. Campus universitario disteso sulla spiaggia di un’isola immersa nel fiume. Attorno, caffè e librerie. Qualche chilometro in là, la vecchia gendarmerie è diventato l’ospedale di un terzo mondo drammaticamente a africano. E la fabbrica del ghiaccio sembra un mulino abbandonato.
Ai giornalisti che aspettano la partenza di Ariane regalano un prontuario che scandisce il conto alla rovescia, secondo per secondo. I motori si accenderanno fra cinque giorni. Un’occhiata mi dice che mancano 12 milioni e 817 mila secondi. Calcolo che diventa una specie di gioco ma anche ossessione: mi accompagna nella scoperta di un paese grande mezza Italia, 170 mila residenti e altrettanti clandestini. Non resisto, ogni tanto controllo: i secondi del countdown sono diventati 12 milioni e 321 mila e le due realtà continuano a sovrapporsi.
Finalmente in barca alle isole della Salute, quindici chilometri davanti a Kourou, pellegrinaggio all’Isola del Diavolo, monumento che racconta la storia della colonia. Ritrovo i ragazzi della gita scolastica. Con professori che fanno sapere come sono andate le avventure nella foresta sulle colline di Kaw: coccodrilli che sfiorano le barche e il silenzio sbalordito nell’immensità della natura, silenzio che all’isola del Diavolo i liceali di La Rochelle hanno subito infranto. Mentre noi adulti sfioriamo con malinconia le rovine della baracca dove il capitano Dreyfus ha sofferto i cinque anni di prigionia aspettando il nuovo processo che doveva liberarlo, i ragazzi gridano la meraviglia attorno ai cacciatori di pescicani, mezzi sangue che sbarcano il lunario così. Rompono noci di cocco con coltellini svizzeri. Terrorizzano le tartarughe giganti padrone di uno sperone diventato riserva protetta. Sono ricresciute le piante tagliate dai carcerieri per tenere d’occhio i galeotti. Adesso l’illusione delle palme che galleggiano nel mare. Non è azzurro come i fogli del turismo fanno credere. Marron torbido per il fango che i fiumi trascinano dall’Amazzonia. Al diavolo la storia. Una signora prova a leggere ai volonterosi qualche pagina del diario di Dreyfus. Ascoltiamo guardando i resti della baracca. Incatenato al letto per mesi, tormentato dagli insetti, febbre gialla che non lo fa dormire. Deve cuocere il pasto in pentole arrugginite: brodaglia immangiabile. Quando gli permettono di leggere Shakespeare e Montaigne spediti un anno prima dalla moglie, gli insetti che tormentano il capitano fanno nido nelle pagine dei libri. Dreyfus prova a ripulirli ogni mattino, alla fine deve arrendersi. Confessa al diario: devo resistere al suicidio finché posso. Il contrasto tra la felicità di chi scopre le meraviglie della natura e la malinconia di chi visita la storia della maledizione, divide l’Isola del Diavolo in due isole diverse. Che si riuniscono nel bar dell’isola Royale: dalla terrazza osserviamo il Diavolo con la meraviglia del guardare da lontano la vita degli altri. Lontano nel tempo non nello spazio perché divisi da appena un braccio di mare. E una specie di club ruspante nel quale anestetizziamo il ricordo del dolore ascoltando il racconto del signore che scalda il caffè. A Marsiglia non trovava lavoro e ha preso l’aereo, eccolo qui. Bianco, baffetti biondi, prima di tutto. Parlotta con i due gendarmi che proteggono l’isola da chissà quale contrabbando: «I pirati non muoiono mai….»: barista e poliziotti sono contenti di mostrarsi spiritosi. Solo dieci persone abitano le Isole della Salute: aspettano turisti e curiosi col libro in mano. Assieme al professore sono l’avventore più maturo. E il barista fa una confidenza: «Ha visto al museo le teste rinsecchite dei vecchi galeotti ghigliottinati ? Per caso un amico ne ha ereditate tre dal padre poliziotto. Vorrebbe venderle. Se interessa posso chiamarlo…». L’orrore si accompagna al pensiero divertente della dogana del ritorno: teste che escono da una valigia, finiremo davvero alla Caienna. Regalo al professore una copia del prontuario Ariane sapendo di trasmettergli l’ossessione. Controlla l’ orologio e rivela ai ragazzi che sbalordiscono: al lancio del satellite mancano 7 milioni e 457 mila secondi. Tutti dimenticano Dreyfus e i suoi compagni.