L'Italia rischia di affogare nelle acque agitate della Crisi, della Cricca e della Censura, mentre i partiti trafficano per garantirsi la sopravvivenza. Paese dei balocchi: il ministro Scajola si dimette (da non indagato), ma il sottosegretario Cosentino (richiesta di arresto per connessioni mafiose), resta al suo posto. Paese alla deriva: D'Alema, Berlusconi e Bossi ipnotizzati dalle sirene proporzionaliste. Davvero il Presidente della Camera vuole salvare il bipolarismo, alla faccia di Casini, Rutelli, Tabacci e Follini?
Gianfranco PASQUINO – Un paese da operetta ha i partiti che merita
24-05-2010Cinque partiti rappresentati in Parlamento: tre medio-piccoli e due grandi. Alla faccia di Casini, Tabacci, Follini e Rutelli che temono il bipartitismo e ai quali neppure piace “questo” presunto bipolarismo, il sistema partitico italiano è chiaramente, contabilmente multipartitico. Ma, alla faccia di D’Alema, non soltanto non si configura come il multipartitismo di un “paese normale”, ma neppure come il multipartitismo tedesco che, insieme alla legge elettorale, che adesso, a D’Alema gli piace, ha reso stabile, governante e governata quella democrazia che un tempo D’Alema et al. non ebbero dubbi nel definire “autoritaria”. La nostra repubblica democratica , invece, agli occhi dei comunisti italiani, era un’anomalia, naturalmente positiva. Peccato poi che, meritatamente disintegratisi i due poli, cioè DC e PCI, evidentemente non abbastanza positivi, i cocci siano andati per le tangenti. Gli esiti, adesso li vediamo, sono l’UDC, la Lega, il Popolo della Libertà, quello strano e indefinito fenomeno che chiamano Partito Democratico e, naturalmente, l’Italia dei Valori che, senza Tangentopoli, sarebbe assolutamente inconcepibile, mai concepita. Cosicché il sistema partitico italiano è fatto da tre partiti radicati: la Lega nel territorio (non è né una frase fatta né un mantra, ma la realtà), l’UDC nel passato democristiano, l’Italia dei Valori in un piccolo e sparso popolo che vorrebbe meno corruzione, meno porcate e meno privilegi per i potenti. Questi tre partiti hanno davanti a loro un futuro, non glorioso, ma dignitoso, quantomeno di sopravvivenza e di influenza. Possono anche incrociarsi, se sono spregiudicati. Certo, l’incrocio “federalismo-giustizialismo” non ce lo saremmo aspettati, ma, ripensandoci, quel cappio che oscillava in Parlamento l’avevano messo i leghisti e Di Pietro e Bossi non hanno scrupoli quando intravedono vantaggi politici.
A fronte dei medio-piccoli destinati a durare, stanno i due grandi destinati a cambiare, se non addirittura a sparire. Il Partito Democratico è e rimane “un amalgama mal riuscito” come ha detto memorabilmente D’Alema che, però, con tutta la sua intelligenza, ci ha messo tre anni per capirlo. Ed è tuttora sull’orlo di una separazione consensuale oltre che su un deflusso strisciante di personale che un partito serio non avrebbe mai dovuto accogliere nei suoi ranghi e promuovere a parlamentari. Potremmo, naturalmente, esercitarsi nella ricerca di un’identità per il PD, ma il collante vero e diffuso è rappresentato dalle cariche. Quelle, per D’Alema, Fassino e Veltroni e i loro rispettivi seguaci, continuano ad esserci. Quindi nessuna preoccupazione anche se la linea politica non si intravvede, ciascuno di loro gode, rispetto a Berlusconi, del vantaggio dell’età. Ogniqualvolta dichiarano saccentemente che il Berlusconismo è al tramonto, esprimono unicamente un wishful thinking, un pio desiderio, aspettano che cali il sole sul potere di Berlusconi dichiarando al contempo il loro fallimento politico e personale. Loro, quel potere, non hanno saputo neppure scalfirlo e spesso, come nella campagna elettorale di Veltroni, ne hanno imitato le forme esteriori e deteriori. Che cos’era il “buonismo” se non il predecessore, con minore fantasia, del “partito dell’amore”?
In attesa che qualcuno prospetti un futuro decente per un partito che non riesce neppure a concepire il rinnovamento della sinistra, è proprio dalla destra, da dentro la destra che emergono le novità politiche. La sfida di Fini non è a Berlusconi, incarnazione del “cesarismo carismatico”, ma ad un modello di partito che non è in grado di produrre una destra decente (“normale”?), nazionale, istituzionale, europea. Un modello quello del PdL che, proprio perché Berlusconi-dipendente, è succube di Bossi che sopravvive e prospera su un territorio, identitario e sociale, che il PdL non riuscirà mai ad ottenere. Un modello che non è in grado di controllare la corruzione dei singoli. Un modello che, nel migliore dei casi, è un pateracchio del vecchio pentapartito, anzi, qualcosa di meno. Tuttavia, in assenza di un’offerta alternativa, vale a dire di alternativa, serve a vincere e rivincere le elezioni. Il sistema elettorale tedesco, forse la variante migliore delle formule proporzionali, ingesserebbe il barcollante sistema partitico italiano attuale. Il doppio turno francese rimetterebbe tutto in vivace movimento. Ecco perché D’Alema e Casini (ma anche Bossi e Berlusconi) convergono sulla Germania (considerandola quasi come un supermercato, un outlet al quale comprare soltanto la luccicante legge elettorale), mentre Fini guarda al doppio turno francese. Ma, oltre a nominare e controllare i loro parlamentari, che cosa vogliono i dirigenti del Partito Democratico? No, l’alternanza non è alle porte. Sì, il berlusconismo ha vinto dentro la (in)cultura politica del paese, ma deve affrontare una vera sfida nel suo habitat di destra. La fine della ballata dei partiti, per tifosi e ballerini/e, è ancora tutta da venire.
Gianfranco Pasquino, torinese, si è laureato in Scienza politica con Norberto Bobbio e specializzato in Politica Comparata con Giovanni Sartori. Dal 1975 è professore ordinario di Scienza Politica nell’Università di Bologna. Socio dell’Accademia dei Lincei, Presidente della Società Italiana di Scienza Politica (2010-2013), è Direttore della rivista di libri “451”. Tra le pubblicazioni più recenti: "Le parole della politica" (Il Mulino, 2010), "Quasi sindaco. Politica e società a Bologna" (Diabasis, 2011). Ha appena pubblicato "La rivoluzione promessa. Lettura della Costituzione italiana" (Bruno Mondadori, 2011).