Nell’agosto dello scorso anno, è partito da Venezia un treno con 208 passeggeri, persone con problemi psichici, familiari, operatori, volontari, di vari Servizi di Salute Mentale di tutta Italia, giornalisti, che in 20 giorni ha raggiunto Pechino, con tappe a Budapest, Mosca, Ulan Bator, in Mongolia. Sull’esperienza è uscito a suo tempo un interessante filmato: “CIMAP: Cento Italiani Matti a Pechino”, con la regia di Giovanni Piperno, che illustra vivacemente le varie tappe del viaggio, incontri, dialoghi, situazioni. Proprio in questi giorni è stato pubblicato un libro fotografico con immagini bellissime del viaggio e qualche commento scritto. Si intitola: “In treno fino a Pechino? Ma siamo matti?”. E’ edito dalla Cooperativa per l’avviamento lavorativo Cabiria di Parma.
L’iniziativa è stata promossa principalmente dal movimento nazionale “Parole Ritrovate” (Trento) e dall’ “Associazione Nazionale Polisportive per l’Integrazione Sociale” (Prato). L’evento si situa quindi all’interno di un grande lavoro di riabilitazione e partecipazione, che mira a strappare il malato di mente dall’isolamento che lo ha tenuto separato dalla società per anni e anni, utilizzando qualsiasi mezzo di socializzazione, feste, giochi, musica, arte, teatro, sport – che affiancano, ovviamente, il lavoro fondamentale delle cooperative di lavoro, dell’impresa sociale, e aspetti psicoterapici e psichiatrici specifici – per creare nuove situazioni di incontro, di rapporto interpersonali, nuove potenzialità, responsabilità. Il Ministro Livia del Turco, che ha patrocinato, insieme a privati, l’iniziativa, ha dichiarato che è pericoloso sostenere che la salute mentale si favorisce difendendo la società “dei cosiddetti normali dalle ‘turbolenze’ dei cosiddetti anormali. Noi vogliamo contrastare questa idea, e questo si fa con leggi e risorse economiche, ma anche appoggiando esperienze come questa”.
Andare in treno a Pechino è stata sicuramente una idea insolita, sorprendente, coraggiosa, una sfida, una provocazione non solo rispetto al senso comune, ma anche nei confronti dei metodi riabilitativi più tradizionali. Eppure il viaggio è una metafora che indica rischio, scoperta, trasformazione e che si confà perfettamente come strumento di cambiamento a sani e malati. Per quanto riguarda la follia, poi, come non ricordare le navi dei folli che attraversavano nel Medio-Evo il centro Europa, scaricando i loro scomodi carichi lontano dai luoghi di origine, cosa che allude agli attuali viaggi di disperati che solcano il Mediterraneo in cerca di salvezza, rischiando la vita, per essere invece respinti, proprio come un tempo i matti di casa nostra. Anche il film “Qualcuno volò sul Nido del cuculo” con Jack Nicholson si conclude con i pazienti che si impossessano di una nave e affrontano il mare. In questo contesto, famoso è stato il volo organizzato da Franco Basaglia, con i suoi pazienti su Trieste, come pure la traversata atlantica da Cadice, alla Martinica, di pazienti e operatori trentini sulla Margaux, un Benetaux 57. Ma in termini più banali, di quotidianità, sarà bene non dimenticare le miriadi di esperienze di convivenza con i pazienti, durante gite, soggiorni di vacanza, ricerche comuni. Il treno per Pechino, sulla mitica scia di Marco Polo, non è stata quindi una idea balzana, un fulmine a ciel sereno, ma il legittimo sviluppo di una tendenza, punta avanzata di creatività, invenzione collettiva, all’interno della legge 180, anche se non tutti sono stati d’accordo.
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Rispondendo alle critiche mosse, il dr. Carlo Bologna scrive: “Posto che esiste per tutti nella pratica quotidiana del Servizio uno “zoccolo duro” fatto di clinica e di farmacologia, quale posto dare a questa miriade di pratiche che sono cresciute nei Servizi, che si sono guadagnate sul campo il titolo e la forza di ridisegnare il terreno della Cura? Ogni volta che si é usciti dalla riabilitazione tradizionale…e si è entrati in mare aperto, nella vita dei pazienti e delle famiglie e della comunità intorno, si è incontrato un territorio sterminato di problemi e di risorse e di idee nuove; su questo sono cresciute nuove pratiche, in un circolo virtuoso. Ma a questo punto…il confine della Cura dov’è?”.
Le parole chiave del viaggio sono state: fare insieme, contaminazione culturale, condivisione, cambiamento, responsabilizzazione, incontro, protagonismo, tutte parole del movimento antistituzionale, della legge 180. Qualche anno fa a Trento, durante un convegno sul teatro, se ben ricordo, ho avuto modo di sperimentare l’atmosfera collettiva che sta alla base del viaggio. Ero in una grande piazza brulicante di vita. persone, cose, musica, voci. C’erano palcoscenici colorati, attori, coppiette, vecchi, bambini. Sarebbe stato patetico chiedersi quali erano i matti. Due suorine bevevano la birra.
Nelle numerose tappe del viaggio si sono instaurati rapporti nuovi con servizi, popolazioni di terre lontane. A Budapest l’incontro con operatori, pazienti, cittadinanza, è stato organizzato nel parco di piazza Kalvaria, dove era stato allestito un palco. Nei discorsi di benvenuto degli oratori ungheresi si è molto sottolineato il valore del viaggio e l’importanza che questo rivestiva per stimolare programmi di contrasto alla stigmatizzazione sociale in Ungheria. Dopo gli interventi italiani che hanno illustrato la legge 180 e l’attuale situazione della salute mentale nel nostro paese, le due delegazioni hanno piantato un albero, simbolo di impegno comune per il futuro, ai cui rami erano stati attaccati bigliettini con le speranze, i sogni di tutti. A Mosca ci sono stati scambi interessanti sulla situazione italiana e russa, con particolare riferimento alla situazione degli ospedali psichiatrici, che in Italia sono stati definitivamente superati e alle situazioni di autoaiuto, specialmente per quanto riguarda gli alcolisti. Non sono mancati momenti di serrato, significativo confronto. Scrive il dr. Bologna di Trento: “Cito per concludere l’esperienza del mio paziente Marco, che ha sostenuto in lingua inglese un botta e risposta con uno psichiatra sovietico: l’illustre collega sosteneva che Marco doveva stare non in viaggio, ma ricoverato; Marco rispondeva, argomentando, che le cose in Italia non funzionano più sempre così, e che forse doveva ricoverarsi lui….(Fogli d’informazione n. 2). Dopo l’incontro con la fondazione mongola dei disabili a Ulan Bator, il treno è arrivato finalmente a Pechino, dove la delegazione cinese ha apprezzato vivamente lo spirito del viaggio, auspicando rapporti sistematici, a partire da un tavolo comune di scambio di informazioni e esperienze.
Il viaggio è stato certamente importante per questo insieme di rapporti esterni, ma fondamentali sono stati anche tutti i rapporti interpersonali che ha permesso di istaurare tra tutti i partecipanti: un incredibile contenitore mobile di scambio di conoscenze, emozioni, esperienze, storie di vita, una indimenticabile, difficilmente comunicabile dimensione affettiva, che ha segnato indelebilmente tutti e che tutti ricordano con estremo interesse, passione, nostalgia.
L’atmosfera a bordo è sempre stata estremamente cordiale e non si è verificato nulla di increscioso.
Stranamente, l’unico incidente di percorso non è legato ai nostri viaggiatori, ma a risse tra i camerieri ucraini, la cui gravità ha spinto il capotreno a sostituirli tutti.
Durante l’attraversamento del deserto del Gobi, il treno ha viaggiato per tre giorni e per quattro notti senza mai fermarsi. Ogni vagone era formato da otto-nove cabine con quattro cuccette ciascuna, c’era poi il vagone ristorante dove tutti si mangiava a turni. Allora per passare il tempo si sono inventati laboratori itineranti, di yoga, cucina, ginnastica libera. E’ successo così che si desse il nome ai vari vagoni. Quello di Parma, uno dei più attivi si è chiamato “La fattoria”, forse a ricordo dell’assessore Mario Tommasini che aveva fondato una struttura con questo nome, quello dei bolognesi ” Il pensatoio”. “Era proprio una grande famiglia” ha ricordato un partecipante, Massimo Costa. Dopo mangiato si faceva il giro di tutte le carrozze, si andava a trovare gli amici. Era un grande quartiere, un paesino itinerante. A me ricordava quando ero bambino che abitavo nella grande casa degli infermieri, mio padre era infermiere, e tutte le porte erano aperte, e se avevi bisogno di qualcosa, il sale, il caffè, bastava entrare, oggi invece………”.
Oltre gli indimenticabili aspetti interpersonali, oltre la ricchezza dei rapporti internazionali, resta comunque il valore simbolico di questa straordinaria esperienza, che contribuisce ad avvicinare ciò che chiamiamo sano, normale, a ciò che chiamiamo malato, anormale, mostrando come ogni esperienza condivisa arricchisce ciò che è umano e lancia ponti verso il futuro che spetta a ciascuno di noi percorrere creativamente.
Tre domande:
- Cosa ne pensi di questo treno per Pechino?
- Simili inziative possono aiutare i “folli” a reinserirsi nella società?
- Conosci qualche “matto”? Se sì, che rapporti hai con lui?
Paolo Tranchina, psicologo analista a Firenze, è direttore di "Fogli di Informazione"