Alessandro, 28 anni, una laurea in architettura conseguita con lode già due anni fa. La storia della ricerca di una strada in uno scenario, quello del nostro Paese, che ai giovani sembra non offrire prospettive ed in cui ognuno deve inventarsi un modo, un’alternativa e spesso accettare il meno peggio. Non più solo alle urne, ma anche nella vita quotidiana, siamo costretti all’assottigliarsi delle possibilità, per cui scegliere diventa piuttosto ripiegare sulle uniche vie possibili, adattarsi, aspettare.
Ripensando alla riflessione del premio nobel per l’economia, Amartya Sen, secondo il quale lo sviluppo – che differenzia il Primo dal cosiddetto Terzo Mondo – corrisponde all’espansione delle libertà di cui godono gli esseri umani e la ricchezza va a coincidere quindi con la “possibilità di scegliere”, viene da dire che il nostro sistema socio-economico che svuota l’etica del lavoro calpestando la dignità dei lavoratori, ci sta facendo regredire al livello di molti Paesi rispetto ai quali abbiamo la presunzione di pensarci avanzati.
Ma torniamo a una storia come tante, che dà testimonianza di quanto le scelte politico-economiche non siano solo materiale per dissertazioni accademiche, ma abbiano un impatto concreto, ed amaro, sulla vita di tutti i giorni, tanto da rubare al futuro la sua prospettiva.
Ciao Alessandro, dopo una laurea con lode conseguita nei tempi, hai deciso di sperimentare il lavoro nel mondo dell’Università. Qual è stata la tua esperienza?
Beh, forse parlare di “lavoro” è improprio. nel senso che sì, io lavoravo, ma senza percepire un minimo di retribuzione. A ogni modo lo facevo per passione ed anche perchè sembrava l’unico modo di aprirsi un varco in quell’ambiente. Quindi, dopo la laurea ho accettato di affiancare un professore in un corso che verteva su un tema affine alla mia tesi.
Ho fatto l’assistente per 6 mesi. Lezioni, ricevimenti, esami. Dopo quel periodo la naturale prosecuzione della mia relazione lavorativa con l’Università sembrava quella di provare l’esame di dottorato Ma lì, ecco, la sorpresa dell’anno, la notizia che mi ha fatto decidere di cambiare strada e abbandonare l’iter universitario: i posti di dottorato in “tecnologia dell’architettura” erano scesi da 3 con borsa di studio e 3 senza copertura economica, a 1 con borsa e 1 a carico del dottorando.
Quindi le borse si erano ridotte di due terzi da un anno all’altro.
Esatto. Ero arrabbiatissimo. “possibile capitino tutte a me? Possibile che tutto cada sulla nostra generazione?”. Intendo dire, probabilmente quella borsa l’avrei presa, si sa che la prassi in Italia è questa. i posti pagati sono già praticamente riservati a chi è vicino al Professore. Io ero l’assistente ed avevo un buon curriculum. probabilmente avrebbero trovato il modo di assegnare a me quella borsa . ma ero disgustato e me ne sono andato. I miei colleghi e i miei coetanei mi hanno preso per pazzo, ma ho mollato tutto e son partito.
Niente esame di dottorato quindi.
Appunto, ho deciso di non presentarmi. Niente dottarato, niente post-dottorato, niente anni di specializzazione all’estero per ritrovarsi a quasi quarant’anni a sperare di diventare Prof. o, più probabilmente, ricercatore precario. L’episodio che avevo vissuto mi ha fatto percepire chiaramente l’aria che tirava in facoltà, che sentita da dentro, era come quella che si respira su una barca che affonda. Era la sensazione di essere a bordo di una struttura vecchia, che scricchiola. Come una nave che inizia ad imbarcare acqua, si appoggia su un lato, le assi si incrinano, poi, le scialuppe di salvataggio si riempono di persone che scappano, prima che venga il peggio. E io, che ero ancora un po’gasato dall’idea di aver finito l’Università, pensavo: “Su una barca che affonda, io non ci sto”. Così ho rinunciato al dottorato e sono partito per Parigi.
Quindi nella tua scelta di andare all’estero c’era anche un atto di protesta.
Sì, esatto. mi sono detto. “ci trattate come se non valissimo nulla. Pensate solo a salvaguardare gli interessi dei pochi bistrattando i giovani. Bene, restatevene da soli a diventare un Paese Vecchio. Stantio. Senza gambe. Io, la mia vita, vado a cercarla altrove”.
E allora hai preso un volo per Parigi.
Sì. volevo vedere come poteva essere. Mi avevano proposto un contratto di stage in uno studio di architettura e ho lasciato la barca dell’Università.
In Francia l’ingresso nel mondo del lavoro è stato semplicissimo e immediato, là l’iter per fare ingresso nel mondo del lavoro è strutturato in tappe prestabilite e tu sai i passi che ti aspettano. Ho fatto un colloquio: si è parlato solo di quello che sapevo fare e del tempo che avrei impegato ad imparare ciò che mi mancava. Niente di più. Niente conoscenze, niente spintarelle. Venti minuti di colloquio e il mio tirocinio poteva iniziare il giorno dopo, 500 euro al mese con un contratto regolare. Certo un rimborso, non uno stipendio. Ma in Francia le aziende non possono richiederti più di due periodi di stage e dopo sono costrette ad assumerti. Vale a dire, che dopo un anno, avrei avuto il posto. In Italia è tutt’altra musica, anche in studi privati dello stesso livello, il massimo che puoi raccimolare sono 3 mesi di stage senza retribuzione. poi “si vedrà, sai. la situazione non è semplice. C’è la crisi internazionale.” e dopo 3 mesi il tuo curriculum diventa sempre più splendente, ma tutte quelle belle esperienze non trovano un posto dove collocarsi.
Beh, è una bella differenza, ti assicuro, quando vai a cercare un lavoro, quando accetti di lavorare 8 ore al giorno, già quelle prime 500 euro al mese sono una bella differenza. Non solo perchè son soldi che comunque ti cambiano la vita: almeno l’affitto e le bollette non dipendono più da mamma e papà, ma fan la differenza per la DIGNITA’del lavoro e della persona. Senza contare che il lavoro che fai, spesso l’azienda può rivenderlo pari pari. e far profitto.
Passata questa prima esperienza francese però non te la sei sentita di rimanere all’estero. Dopo alcuni mesi di disorientamento in cui hai provato ad immaginarti “un po’qua un po’là”, hai deciso di tornare in Italia.
Sì. non non me la son sentita. sono tornato a Firenze. In un certo senso mi sento “un borghese piccolo piccolo”, ma non ce l’ho fatta a rinunciare a tutto ciò che non è lavoro. Intendo dire, sembra che noi giovani dobbiamo essere flessibili, aperti a ogni tipo di esperienza, sempre pronti con la valigia in mano. Ma non è così semplice. Abbiamo dei legami, la famiglia, gli amici, i luoghi in cui siamo cresciuti, che ci appartengono. Diciamo che alla fine ho optato per la soluzione più comoda, quella di tornare a di vivere per un po’ in Italia, anche se questa decisione mi costa. Adesso sono in uno studio, contratto Co.co.pro, 500 euro al mese fino a giugno, poi si vedrà. Mi costa in termini economici, perché all’estero allo stesso prezzo mi sarei almeno messo sulla strada di un lavoro sicuro, qui invece non c’è veramente prospettiva, ma in cambio ho il prosciutto, il clima, gli amici. Sembra banale, ma non è così.
Secondo te, quali potrebbero essere i rimedi a questo disagio?
Alcune soluzioni per i giovani sarebbero semplicissime da introdurre. Si potrebbe riprendere due politiche francesi per esempio: il Caf e la legge sui tirocini. La prima è un contributo statale all’affitto che viene dato a tutti gli inquilini con regolare contratto. Alleggerisce di un terzo le spese per la casa e basta quasi da solo a porre fine al mercato nero. E vuol dire che ogni mese, ti restano in tasca quasi 150 euro di più.
La legge sui tirocini prevede poi che gli stage vengano retribuiti da un minimo di 400 euro al mese fino a 1000 euro, e le aziende pizzicate con stagisti senza contratto sono costrette a chiudere. E soprattutto dopo due periodi di stage c’è l’assunzione. Insomma, mi sembrano misure semplici, ma importanti per mettere i giovani sulla strada di un’autonomia che non è solo economica. Tuttavia sono misure talmente lontane dal nostro panorama, che non solo non costituiscono proposta politica, ma non vengono neppure cavalcate come argomento di campagna elettorale. A volte penso che dopo vent’anni di Co.co.pro, Co.Co.co e Co.co.dè, non ci resterà che tornare alla macchia.
Giada Oliva, giornalista, si è occupata a lungo di Paesi in via di sviluppo e di cooperazione internazionale. Attualmente lavora nell'ambito della comunicazione politica e continua a seguire ciò che accade dall'altra parte del pianeta.