Al-Jazeera English: l’avvenente anchor da Doha é una specie di detective degli intrighi internazionali, assetata di pistole fumanti. Afferra la penna fra le dita laccate e scocca la linea ad esperti analisti a Parigi, Teheran ed Erbil, pretendendo una risposta secca. “Il nuovo segretario alla difesa statunitense, Leon Panetta, ha dichiarato che l’Iran arma milizie sciite irachene contro i marines, e che provvederá unilateralmente a restituire il colpo. Si prevede una escalation?”. Quanta fretta, bionda. Vuoi tutto e subito, eh? Ma no, sono i tempi della televisione. Non puoi perdere il pubblico, aiuto-cambiano-canale. Due degli ospiti scattano come i corridori dopo lo sparo, duellando con grazia e decisione: uno presentano l’Iran come il drago che sputa fuoco (“mamma li iraniani!”), l’altro sostenendo che al mondo non ci sono draghi al di fuori degli Stati Uniti (“non avrai altri draghi al di fuori di lui”). Ciascuno ha forse tre minuti per convincerci. Fondamentale la spontaneitá del sorriso da persona-ragionevole alla fine del discorso. Il terzo ospite, un ricercatore americano-iracheno, é l’unico a menzionare il dovere di interpellare un attore di cui si tende a parlare in forma passiva: l’Iraq. Paese occupato prima da Hussein e poi dagli Stati Uniti. Paese sempre raccontato, torturato e ricucito, soccorso, fregato, zittito, “stimolato” e “protetto” da altri.
Altrove, tante repubbliche centroamericane avrebbero anche un loro inno nazionale per fare un po’ di scena, ma galleggiando sotto i baffi degli Stati Uniti, cosa-vuoi-farci. Anche l’Iraq ha la sfortuna di trovarsi… “lí”, come direbbe la sessuologa Merope Generosa – interpretata da Anna Marchesini. Troppo vicino al portafoglio palpitante yankee nella zona Golfo. C’é la crisi, e gli Stati Uniti tengono famiglia.
Un accordo in bilico
C’era una volta un accordo stipulato fra il governo iracheno e quello statunitense per decidere il ritiro degli ultimi 50 mila marines entro il 31 dicembre 2011: il solenne US-Iraqi Status of Forces Agreement (SOFA). Secondo l’analista Robert Herriman, peró, ripensamenti malinconici fluttuano da mesi negli uffici di alcuni generali del Pentagono. Tamburellando con le dita e sorseggiando il caffé, ci pensano su: ce ne vogliamo veramente andare? Di certo, gli orologi americani e quelli iracheni non ticchettano all’unisono. I primi avrebbero voluto democrazia, stabilitá e libero mercato all’istante. I secondi, mica la Coppa del Mondo, ma magari elettricitá ed acqua potabile nelle case- non era forse prevista una ricostruzione dopo la distruzione?
Un elemento peró accomuna i destini elettorali dei due governi: la scommessa politica del doppio linguaggio. Uno é quello politico: c’era una volta una campagna critica contro l’occupazione irachena, in appoggio della promessa obamiana per una exit strategy, portata avanti dal Washington Post, The New York Times e tanti altri. L’altro é quello militare: dopo la leggendaria dichiarazione “mission accomplished” di W. Bush, sono passati “ben” 8 anni, o “solo” 8 anni di presenza statunitense? Obama é grosso modo d’accordo con tutti su tutto: sull’andarsene dall’Iraq e anche sul fatto che un contingente debba rimanere. Il “d’accordo, ma anche no”, dal sorriso competente, che lo rende irriconoscibile come rivale dei repubblicani. Anche un occidentale fedele al bombardamento altrui della nostra democrazia si potrebbe chiedere, dopo 8 anni: rimanere in Iraq sulla base di quale principio? Ma quanti bizantinismi teorici! I media allora devono infarinare qualche versione stuzzicante, fra le quali: “le forze irachene non sono pronte a difendere il territorio”, “la democrazia irachena é fragile”, “il paese non é sufficientemente stabilizzato”. E quando gli sará possibile mettersi alla prova?
Sondaggi in Iraq?!
La democrazia irachena é all’infanzia o al massimo all’adolescenza: non sa, non pensa, o forse sí, ma non deve decidere. Secondo Carrie Manning, l’amministrazione W. Bush sosteneva che l’Iraq non fosse pronto per le elezioni, quando appunto il risultato delle elezioni non sarebbe stato quello “giusto”. Solo le proteste irachene hanno ricordato agli americani che le elezioni sono necessarie in un regime democratico. Inoltre, udite udite, esistono sondaggi di opinione anche in Iraq. Il Foreign Policy Journal li riunisce online in una lunga lista: realizzati sia da centri accademici come l’Oxford Research International, sia da attori politici come, fino al 2004, dalla stessa Autoritá Provvisoria della Coalizione. Tutti i sondaggi a confermare, anno dopo anno, una amara consapevolezza da parte della cittadinanza irachena: l’elemento principale che aggrava la situazione della sicurezza in Iraq é precisamente la presenza statunitense. Il nazionalismo iracheno non é piú un dibattito sull’avere o meno un padrone della vita e della morte. Fra la cieca obbedienza al folle dittatore Hussein (che si considerava la quintessenza dell’Iraq), e chi invece ha cercato di resisterlo, come i curdi e gli sciiti, a centinaia di migliaia nelle fosse comuni dell’eroismo. Nel post-Saddam, i politici iracheni discutono su cosa intendere per “sovranitá nazionale”, sull’opportunitá di avere un “tutore straniero”, e riuscire chissá come a vendere elettoralmente l’idea di “padroni a casa nostra”. Le infinite lungaggini del governo di Al-Maliki per prendere qualsivoglia decisione riflettono anche il fatto che ora, ai partiti sunniti, andrebbe bene condividere il tavolo dei negoziati con gli ex nemici statunitensi (in chiave pro-saudita e pro-israele, quindi anti-iraniana) e per conservare o magari aumentare il loro potere relativo. Ma non possono dirlo apertamente, altrimenti l’elettorato iracheno non li rivoterebbe. D’altra parte, ai partiti sciiti, amici dell’Iran, non conviene piú tollerare gli ex-alleati statunitensi, perché non saprebbero come giustificare la loro presenza.
Il romantico bisogno di governi amici quanto di governi nemici
Qualcuno é ancora commosso di fronte alle bare fasciate con la bandiera dell’esercito della democrazia, e reitera “il sacrificio umano e finanziario” di questa impresa senza happy né sad end, perché pare proprio senza end…a lui pare rispondere l’ambasciatore statunitense in Iraq, James Jeffrey: “finiremo il lavoro e compenseremo il sacrificio fatto, o rischieremo interessi di sicurezza nazionale e cederemo il campo a terroristi e ad altre pericolose influenze regionali”. Qualche altro invece considera che gli Stati Uniti sbagliano all’ignorare i sondaggi e non sognare nemmeno di permettere un referendum affinché gli iracheni decidano sulla loro permanenza militare nel paese. Qualcun’altro ancora, glielo fa capire con le armi che la porta é lá, come si suole fare dai tempi dei tempi, anche senza ideologie islamiche di mezzo. Ecco finalmente l’amo mediatico col quale pescare nuovi consensi: il problema non é né entrare in Iraq né rimanerci. Il problema é chi questiona l’idea che questo sia legittimo. Pare che in Iraq occorra dimostrare la propria “democraticitá” giustificando lo status quo. Eppure in tutto il mondo la gente protesta perché la propria voce non é quella della propria classe politica. Per restare, i marines devono avere una giustificazione difensiva: c’é quindi bisogno di un Iraq eternamente a ferro e fuoco. Oddio, non c’é piú Bin Laden, non c’é piú Saddam: chi li potrá mai sostituire? Ci mancava tanto il duello da Guerra Fredda, Iran e Stati Uniti.
Specialista in cooperazione internazionale. Autrice di "Romanzo di frontiera" (Albatros, Roma 2011), magia e realtá delle donne latinoamericane alla frontiera Messico-USA; "In Amazzonia" (Milano, Feltrinelli, 2006); "La Ternura y el Poder" (Quito, Abya Yala, 2006); "Una canoa sul rio delle Amazzoni: conflitti, etnosviluppo e globalizzazione nell'Amazzonia peruviana" (Gabrielli Editore, Verona, 2002); co-autrice di "Prove di futuro" (Migrantes, Vicenza, 2010).