La Lettera

Per ripulire la democrazia inquinata i ragazzi hanno bisogno di un giornale libero

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È abbastanza frequente che editori della carta stampata chiudano i loro giornali. Anche a me è capitato quando dirigevo “L’Avvenire d’Italia”, e oggi si annuncia una vera e propria epidemia a causa della decisione del governo di togliere i fondi all’editoria giornalistica. Ma che chiuda Domani di Arcoiris Tv, che è un giornale on line, è una notizia …

La Lettera

Domani chiude, addio

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L’ironia di Jacques Prévert, poeta del surrealismo, versi e canzoni nei bistrot di Parigi, accompagna la decadenza della casa reale: Luigi Primo, Luigi Secondo, Luigi Terzo… Luigi XVI al quale la rivoluzione taglia la testa: “Che dinastia è mai questa se i sovrani non sanno contare fino a 17”. Un po’ la storia di Domani: non riesce a contare fino …

Libri e arte » Teatro »

Teatro bene comune per il palcoscenico di dopodomani

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Teatro Municipal - Foto di Elton Melo

“Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte”. Parole di Leo …

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Il governo Berlusconi non è riuscito a cancellare l’articolo 18, ci riuscirà la ministra Fornero?

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Il governo Monti ha perso il primo round con Susanna Camusso che fa la guardia alla civiltà del lavoro, fondamento dell’Europa Unita. Sono 10 anni che è morto Marco Biagi, giuslavorista ucciso dalle Br. Si sentiva minacciato, chiedeva la scorta: lo Scajola allora ministro ha commentato la sua morte, “era un rompicoglioni”. Rinasce l’odio di quei giorni? Risponde Cesare Melloni, …

Mondi » America del Sud »

Dalla frontiera di Ciudad Juarez alle Ande è escalation criminale. Le opinioni di Raúl Zibechi, Gustavo Gorriti e Omar Rincón: preoccupati ma convinti che una democrazia trasparente alla fine può spuntarla

L’America Latina nelle mani dei narcos? Cosa ne pensano gli intellettuali del continente

03-01-2011

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Messico 2010. Gli scenari sono quelli di una guerra, combattuta su vari fronti, non solo tra il potere federale e i narcos, ma, con alterne vicende, tra le stesse organizzazioni criminali. Dal 2006, quando Felipe Calderón, appena eletto, ha dato corso all’offensiva militare, sono stati contati circa 30 mila morti: numeri che evocano quelli degli anni settanta e ottanta in Colombia, quando dilagava la violenza dei narcos di Cali e Medellin. Dal 2000 sono 64 i giornalisti uccisi, e altri 12 sono spariti, forse per sempre, ma solo nei primi 6 mesi del 2010 ne sono stati uccisi 9 e 2 sono stati sequestrati. Sorti analoghe hanno subìto poi esponenti politici di ogni orientamento, con numeri ancora in aumento nell’ultimo anno. Solo nell’estate 2010 ne sono stati uccisi almeno 10. Il trend è altresì in crescita. Se nel 2009 il narcotraffico ha provocato 17 omicidi al giorno, nel 2010 ne ha fatto quasi 40, con il risultato di oltre 10 mila morti. Ciudad Juarez, gemella di El Paso sul Rio Grande si conferma quindi la città più violenta della terra. Ma oltre le frontiere a sud la deriva civile non è da meno.

Colpito da un crescendo di stragi in stile messicano, l’Honduras ha appena guadagnato il primato mondiale degli omicidi in rapporto alla popolazione, con 286 morti al mese, corrispondenti a 66,8 ogni centomila abitanti. In Guatemala l’emergenza è tale che il presidente Alvaro Colon ha dovuto sciogliere la polizia antidroga, destituendone il capo, e licenziare molti procuratori per collusione con i narcos, mentre nella Bolivia di Evo Morales, secondo stime attendibili, il contributo del narcotraffico al Pil è andato portandosi verso 10 per cento. Analoghe derive si registrano in Perù, che resta uno dei primi produttori mondiali di coca, in Salvador, dove imperversano le Maras, e in Colombia, dove i cartelli vanno al rilancio, puntando, oltre che sulla coca, che resta il business fondamentale, sulla raffinazione dell’oppio. La problematicità della situazione non viene sottovalutata, né potrebbe esserlo. Trova riscontro del resto, pur con delle forzature di natura politica, nel rapporto 2010 emesso dall’amministrazione di Obama sui paesi che più si correlano con il narcotraffico. Nella lista dei primi venti, ben quindici risultano essere latinoamericani. Il sistema Messico esemplifica allora uno stato di cose di ampiezza continentale, che ha indotto peraltro l’attuale amministrazione statunitense, per bocca del segretario di Stato Hillary Clinton, a minacciare un plan Colombia per l’intero Centroamerica. Proprio la situazione messicana, cui non sono estranei i suggerimenti e le influenze di Washington, suggerisce tuttavia che la soluzione del problema, laddove dovessero prevalere logiche di tipo militare, resterebbe lontana.

L’America Latina costituisce in realtà un mondo complesso, che ha coniugato fino al paradosso povertà e ricchezze, politiche autoritarie, più o meno legate agli interessi del potente Nord, ed esperimenti di portata civile, come nell’Uruguay, nell’Argentina e nel Brasile degli ultimi anni. Sconta altresì i danni di un passato difficile, condizionato appunto dalla contiguità con gli States, che sin dai tempi della Frontiera non hanno mai smesso di imporre le regole. In sostanza, archiviata in qualche modo la stagione dei Videla, dei Pinochet, dei Noriega, degli squadroni della morte e dei desaparecidos, gli Stati latinoamericani stanno vivendo altre emergenze, peraltro già subite, sotto l’egida dei narcos e della corruzione. Quale lettura ne fanno gli intellettuali latinoamericani? A tre esponenti della comunicazione del continente abbiamo chiesto di esprimere la loro opinione sull’evoluzione degli ultimi anni. Si tratta dello scrittore uruguaiano Raúl Zibechi, del giornalista peruviano Gustavo Gorriti, già vice direttore de «La Prensa» di Panama, coeditore in Perù del giornale «Repubblica» e collaboratore del «New York Times», e del docente colombiano Omar Rincón, direttore del Ceper, dell’Universidad de los Andes. Come si vedrà, su alcuni punti le loro argomentazioni convergono, ma su altri si riscontrano significative differenze.

Secondo Raúl Zibechi «la penetrazione delle droghe nella società dipende molto dalla forza di legittimazione del potere pubblico». Lo scrittore di Montevideo sostiene quindi che nei paesi latinoamericani più stabili politicamente, come il Cile, il Brasile, l’Uruguay e Argentina, il narcotraffico non può avere incidenze maggiori di quanta ne abbia nei paesi europei. Usa tale parametro per definire altresì la situazione messicana: «Tutte le analisi confermano che il potere pubblico del Messico reca un deficit di legittimità. Si parla di Stato fallito, di governi privi di credibilità, per i disastri di politica economica che hanno generato e per il clima di corruzione che ne sono scaturiti per decenni, senza interruzione. Con l’avvento di Calderon, d’altronde lo Stato ha dichiarato la guerra solo a qualche cartello e non al narcotraffico, e questo ha portato i narcos ad unirsi contro il governo». Aggiunge che «se lo Stato non riuscirà a vincere questo conflitto, indotto peraltro da ingerenze e interessi oscuri, il paese si troverà in una situazione insostenibile». Evoca quindi l’America più potente, timorosa di quel che avviene oltre la frontiera del Rio Grande, sostenendo che «quanto accade in Messico, inevitabilmente influirà sugli States, tanto più su quelli confinanti, dove alla lunga saranno possibili fenomeni di instabilità». Si dice convinto del resto che «il Messico è arrivato a questo punto per avere seguito le politiche degli Usa».

Dello stesso avviso si mostra Gustavo Gorriti, che espone la situazione messicana in questi termini: «Durante i decenni dell’egemonia del Pri, dal 1929 al 2000, le organizzazioni criminali, specie quelle dedite al narcotraffico, hanno esercitato un’influenza sempre maggiore sulla sfera pubblica, che si è tradotta in una fitta trama di complicità con autorità locali, statali e federali. L’indebolimento dell’autorità di governo, la persistente corruzione e la concorrenza tra i narcotrafficanti hanno finito per elevare quindi l’iniziativa del crimine, tanto più dopo la fine dell’egemonia priista, quando le guerre scoppiate tra i cartelli, con il coinvolgimento di funzionari corrotti, hanno fatto degenerare le cose con rapidità. E la scelta repressiva del governo di Felipe Calderòn, con l’impiego massiccio delle forze armate, è stata, come sempre più è evidente, una risposta errata». I nodi della questione, prima che messicani, per Gorriti sono comunque latinoamericani, risiedendo nelle innovazioni che sono state introdotte nella produzione della cocaina e nelle logistiche dei narcos. «C’è sufficiente consenso – spiega il giornalista peruviano   circa il rapporto fra la crescita del narcotraffico e la diversificazione del medesimo. La produzione di cloridrato di cocaina è diventata più semplice e meno costosa. Non necessita in particolare dei grandi laboratori di una volta, come i 19 che funzionavano a Tranquilandia, sotto il controllo dei capi del cartello di Medellin. D’altra parte le vie della droga sono adesso molto più numerose che in passato. Dalle aree di produzione portano in tutte le direzioni, al Nord come al Sud, nell’Europa centrale e orientale, nell’ex Unione sovietica, in Asia, dove il prezzo della cocaina è molto più alto di quello che è raggiungibile nell’emisfero». Ritiene altresì che la situazione in paesi come il Guatemala, El Salvador e l’Honduras vada facendosi peggiore di quella messicana, perché gran parte degli imbarchie e dei transiti di droga avvengono nei loro territori.

Dalla Colombia, che insiste a vivere appunto in una condizione di emergenza, Omar Rincón, condivide alcuni argomenti con Gorriti e Zibechi, in particolare quello delle responsabilità dei governi, ma manifesta un altro approccio, introducendo variabili di tipo sociale. «Visto da fuori e da quanto si legge – spiega lo studioso di Bogotà   potrei dire che il Messico ha superato tutte le possibilità criminali e mafiose. Probabilmente la causa più ovvia è che questo paese è stato gestito e organizzato da mafie, consolidatesi durante i 70 anni di governo del PRI. Tali governi, portatori di una cultura politica ed economica distinta, hanno fatto la legalità istituzionale a loro misura, a beneficio di famiglie e di potentati territoriali. Una seconda causa si può ravvisare nell’estensione sempre maggiore del narcotraffico, che trova proprio nel Messico la frontiera naturale per l’accesso agli Stati Uniti, cioè al mercato dei narcotici più importante al mondo. Una causa ancora può essere ravvisata poi nelle condizioni sociali. I governi del PAN, prima con Fox poi con Calderón, hanno concepito e realizzato uno Stato in difesa dei ceti ricchi. Gli strati popolari della società sono stati indotti quindi a scegliere le vie paralegali, che portano ai narcos. La quarta causa è costituita infine dalla disordinata guerra ai cartelli promossa dal governo Calderòn. Non si capisce infatti chi sia realmente il nemico da combattere».

Nel valorizzare alcuni aspetti del costume latinoamericano, il docente di Bogotà sovverte comunque il significato intrinseco del fenomeno sociale, con esiti sorprendenti. Sostiene infatti che la droga nel continente, a partire ovviamente dalla coca, è una cultura, ma soprattutto un progetto comune, identificato come estetica, radicato nel presente più che nel passato. In una intervista rilasciata alla giornalista uruguaiana Mariangela Giaimo, sul settimanale «Breha» del 6 maggio 2010, ha sintetizzato la propria opinione con queste parole: «L’estetica della droga mi appartiene, ne siamo figli tutti i latinoamericani. Lo siamo da trent’anni. È ormai un modo di pensare». E ai quesiti che abbiamo posto risponde con analoga concisione: «La droga – spiega   è un grande affare di integrazione regionale; è l’elemento intorno al quale ci uniamo, ci raggruppiamo noi latinoamericani, dal Cile fino al Messico. È una grande rete di integrazione economica e politica. È la nostra via, para-legale più che illegale, per guadagnare mobilità sociale e salire nella scala dei consumi. Sotto il profilo culturale è una marca estetica, fatta di telenovelas, architettura, musica, moda, oltre che una etica pubblica, la sola legge vigente, in virtù della quale tutto si può comprare, che sancisce quindi il primato del denaro e del mercato». Per forza di cose, nell’analisi del docente colombiano, incentrata appunto su dinamiche estetiche e utilitaristiche, il sistema criminale che si erge sulle droghe sembra rimanere altresì in penombra, quale correlato, possibile se non necessario, di un percorso di promozione sociale, di cui va preso atto. Ed è tale aspetto che più sorprende. «La crisi mondiale – afferma Rincón   non è il fattore chiave di chiarezza dato che gli effetti non si sono sentiti tanto. Questo perché i soldi del narcotraffico danno respiro, da tempo, all’economia latinoamericana».

Si tratta allora di un arroccamento, di una variante raffinata del conservatorismo di quelle regioni? Si direbbe di no. Omar Rincón manifesta una fiera opposizione allo statu quo, in particolare alle logiche di dominio statunitensi, che considera il fondamento dei mali latinoamericani, inclusa la recrudescenza di atti criminali in Messico. Pure tale opposizione, profonda e radicale, offre poi la misura di un riflettere divergente, non privo comunque, sul piano concettuale e non solo, di possibili rischiose ricadute. «Credo che si stia creando – spiega   un nuovo motivo di odio verso gli Stati Uniti. È sempre più facile odiarli. Per questo ciò che accade da noi, per quanto tragico, non viene percepito dalle gente come criminale. La droga è la nostra arma di combattimento contro l’imperialismo, contro l’abuso gringo [cioè straniero, nordamericano]. È questo il sentire autentico che è nel popolo». Lo studioso colombiano offre quindi una riflessione, che forse non tiene conto di un aspetto specifico dell’America: quello delle dinastie criminali, etniche e non solo, che a dispetto di continuano a contare nelle metropoli. «Di sicuro – argomenta   negli Stati uniti non esiste un sistema narcos o un grande vecchio della droga. Si dà il caso che tutti i narcotrafficanti sono latini. Questo non è strano?». In realtà, sembra voler dire Rincón, tutto riconduce a un soggiogamento strategico, e la disillusione, l’assenza di mobilità, di cambiamenti, di futuro, di equità, di un benessere garantito, possono giustificare la condotta para-legale delle popolazioni. «Gli Stati Uniti – conclude il docente   hanno creato il modello di lotta contro la droga in America Latina. E continueranno ad imporre tale modello. Sappiamo quindi che la legalizzazione, auspicabile, non potrà essere realizzata».

[NDR – Gustavo Gorriti è l’esempio di come il giornalismo può aiutare la democrazia: Lavora al settimanale Caretas, il giornale più indipendente del Peru,proprietario e direttore Enrique Zileti Gibson, origine italiana: discende da una nobile famiglia costretta a fuggire da Milano dopo le Cinque Giornate di rivolta contro gli austriaci di Radesky. Negli anni ’90 le inchieste di Gorriti dimostrano la colpevolezza diretta del presidente Fujimori nel massacro di alcuni studenti contrari al regime. Prevedendo di sparire come sono spariti coloro che dimostrano la corruzione del capo dello stato, Gorriti mette in allarme la comunità internazionale, giornalisti e associazioni umanitarie. Quando le squadre della morte lo rapiscono, Nazioni Unite e la stampa di tutto il mondo interviene e Fujimori è costretto a liberarlo. Oggi sta pagando il crimine in una prigione non lontana da Lima. Il giornalista si traferisce a Panama, dirige il quotidiano La Prensa e continua la lotta contro autocrazia e corruzione. Le nuove inchieste inchiodano il presidente panamense Perez Balladares, socio dei narcos colombiani. Lo dimostra con documenti che provano finanziamenti e proprietà comuni. Nuove minacce di morte alle quali Gorriti reagisce u8sando una vecchia legge degli Stati Uniti in quanto la sede del giornale si trova nella Canal Zone sotto controllo dei militari Usa. E’ un provvedimento umanitario deciso da Lincoln negli anni della guerra di Secessione:: chiunque aiuta ed ospita uomini e donne di colore perseguitati dal razzismo dei repubblicani del Sud è autorizzato a proclamare la casa che abita < santuario > nel quale non possono penetrare militari ostili. Gorriti non si muove dalla sede del giornale assediata dalla polizia e le inchieste continuano mentre giornalisti e Tv arrivano da ogni parte per intervistare il paladino della libertà di informazione. Diventa protagonista di una battaglia c affascina i media del mondo. Dopo due mesi Perez Balladares lascia la presidenza e Gorriti torna in libertà. E torna a Lima appena Fujimori scappa in Giappone e poi in Cile dove viene arrestato. Continua a scrivere per Caretas con l’intelligenza e l’umiltà di un grande cronista. E poi libri, e poi saggi]

1 – continua al prossimo numero

Carlo RutaCarlo Ruta si occupa di ricerca storiografica e di informazione. Dalla metà degli anni ottanta fino alla metà degli anni novanta è stato direttore di una rivista bibliografica e scriveva sul settimanale “Avvenimenti”. Attualmente scrive su "Il Manifesto", "Narcomafie", "Left Avvenimenti- L’Isola possibile", "Libera Informazione". Ha curato il sito web accadeinsicilia.net e il blog leinchieste.com. Con la casa editrice Rubbettino ha pubblicato "Gulag Sicilia" (1993), "Appunti di fine regime" (1994) e "Il binomio Giuliano-Scelba. Un mistero della Repubblica?" (1995). Con la casa editrice La Zisa ha pubblicato "Cono d’ombra" (1997) e "Politica e mafia negli Iblei" (1999). Con Mimesis ha pubblicato "Guerre solo ingiuste. La legittimazione delle guerre e l’America dal Vietnam all’Afghanistan" (2010). È socio onorario di Libera e di altre realtà associative.

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