Nel pieno della crisi capitalistica, che, come è stato efficacemente detto, ha già modificato il paese antropologicamente sul piano sociale, culturale, politico ed economico; in una crisi che accentua, aggrava gli elementi di insicurezza e di paura per tutti; con un Pil sceso in dieci anni di oltre il 4%, con una disoccupazione all’8,8% e nel contesto di una gestione politica di destra della crisi medesima, tesa a scaricarla sul taglio del welfare, anche col federalismo fiscale, sì che le regioni meridionali ne subiranno conseguenze drammatiche; nel quadro di un attacco generalizzato per distruggere le posizioni dei lavoratori e le organizzazioni sindacali autonome, sì da avere solo sindacati “collaboranti”, cioè complici del potere politico padronale e in una recrudescenza e diffusione di massa del razzismo e di culture “fasciste”; in coincidenza con una grave pesante sconfitta delle organizzazioni politiche di classe e quale sintomo del malessere profondo che attraversa il paese, assistiamo a un dialogo veramente allucinante, a distanza, fra leghisti del nord e del sud, speculari gli uni agli altri.
Quello del nord attacca accusando i meridionali di essere succubi delle organizzazioni criminali mafiose: camorra, ‘ndrangheta, sacra corona unita, cosa nostra; quello del sud risponde dicendo che anche loro, i padani, si sono serviti e si servono di queste organizzazioni criminali per la gestione-trasporto nelle regioni meridionali dei rifiuti industriali tossici e hanno dato e danno una mano interessata e partecipe per il riciclaggio, a livello di società finanziarie e industriali, del “denaro sporco”. Si scambiano poi con veemenza l’accusa di essere entrambe, il nord ed il sud, società in cui domina l’omertà. Il leghista del sud dice infatti a quello del nord che l’omertà è dettata, nel suo ambiente, dall’egemonia, a livello territoriale, del potere politico delle mafie, dal timore, dalla paura che l’autorità cui denunciare un sopruso, una minaccia, possa essere legata, condizionata dalle mafie; e gli rinfaccia, quasi a mo’ di autoconsolazione e con un certo compiacimento, che anche loro, durante il periodo del terrorismo, sono stati omertosi, paurosi di denunciare le minacce e la violenza di gruppi armati.
E quando il leghista del nord lo attacca dicendogli che loro, quelli dei sud, non hanno senso civico e per qualunque cosa si raccomandano, si affidano sempre a qualcuno, gli viene di contro detto che anche il Bossi per il figlio “Trota” si è raccomandato a tutti per farlo promuovere a scuola e poi l’ha sistemato nei posti di comando della Lega, dimostrando così che il familismo vive e vegeta anche dalle loro parti.
Sembra che entrambi trovino una consonanza e si riconoscano nel detto che caratterizza da tempo il nostro costume nazionale: “tengo famiglia”, e nell’altro, omologo, “fan così tutti”; nessuno dei due dialoganti, ovviamente, considerati i punti culturali di partenza, svolge la benché minima critica nei confronti della concezione del mondo di cui sono rispettivamente la piatta espressione.
Il messaggio che danno è la fotografia della miseria morale che domina il paese, dell’offuscamento di ogni valore di riscatto e rinascita, dell’oppressione, anzi dell’egemonia culturale del padronato, dell’imperante berlusconismo.
Non c’è negli uni e negli altri, né, per quanto sopra detto, potrebbe esserci, il benché minimo riferimento a coloro che, al nord e al sud, hanno saputo e sanno essere uomini, cioè eretici, cittadini che scelgono il fronte della lotta, che hanno tenuto e tengono alta la testa: operai, contadini, intellettuali, sindacalisti, dirigenti politici e oggi anche imprenditori. Solo, infatti, chi ha affrontato e affronta il rischio insito in ogni scelta, specie in quella per la libertà, la dignità e la democrazia, si pone come soggetto e non più come comparsa, persona, maschera nel significato che nell’antica lingua latina aveva la parola persona.
Non un leghista del sud, sia campano che siciliano, vittima quest’ultimo della subcultura del sicilianismo, porta come esempio di riscatto e di dignità le scelte compiute da uomini come Placido Rizzotto, Accursio Miraglia, Giancarlo Siani, Giuseppe Fava, Mario Francese, Beppe Alfano, Pio La Torre, Falcone, Borsellino, Libero Grassi, Peppino Impastato, solo per citarne alcuni, i primi che vengono alla memoria. Questi non sono stati degli eroi, ma solo uomini che hanno scelto di essere liberi, di non morire ogni giorno, come tutti coloro, che, secondo il canone indicato dal leghista del sud, peggio se cultore del sicilianismo, si nascondono opportunisticamente dietro l’usbergo della c.d. paura. Falcone, con un’immagine forte amava ripetere che egli, non avendo paura, avendo scelto di essere uomo, cioè soggetto libero, sarebbe morto una sola volta, mentre chi soggiaceva vigliaccamente alla paura, moriva ogni giorno ed era nella società una “maschera”, un cadavere ambulante.
Non un leghista del nord che, assieme a quelli del sud, indichi l’esempio luminoso degli antifascisti che numerosi non accettarono la compromissione col regime, difendendo la libertà loro e nostra con duri anni di carcere, o quello dei condannati a morte della Resistenza che affrontarono a testa alta il nemico, tramandando a noi un messaggio forte di dignità; ovvero ancora quello fulgido di Guido Rossa che scelse di lottare per la libertà degli operai a non avere paura e non soggiacere alle vigliacche minacce di gruppi armati autoproclamatisi capi del popolo e detentori delle sue sorti; ovvero di magistrati come Alessandrini e avvocati come Ambrosoli che non si abbassarono alle minacce della mafia e/o dei terroristi, bollati giustamente, questi ultimi, da Berlinguer come espressione di un imbelle “diciannovismo rosso”.
Entrambi, il leghista del sud e quello del nord, lontani a distanza stellare dalla dignità propria di un uomo, non immaginano di poter portare ad esempio la scelta libera di un cittadino come Saviano, che non a caso viene attaccato da chi oggi esprime al massimo livello il plebeismo della subcultura civile e politica di gran parte degli italiani; né pensano di identificarsi nella coraggiosa civile battaglia dei giovani del “No pizzo” di Palermo, che hanno fatto dire a Ingroia, giustamente, che “una rivoluzione culturale si sta avviando in Sicilia”, rivoluzione che ci auguriamo rappresenti una nuova linea della palma che attraversi veloce l’intero paese.
Un amico e compagno siciliano ebbe la dignità di sapere affrontare e dire un no duro a un delinquente della mafia come Genco Russo che perorava dall’amministrazione comunale di un grosso centro dell’agrigentino favori per suoi protetti; e lo stesso succitato amico, trasferitosi poi in una città del nord, minacciato con una scritta anonima, attaccata alla porta di casa sua, di essere gambizzato dagli “autonomi” nella seconda metà degli anni ’70, perché comunista del Pci, fece subito denuncia alla procura rendendola pubblica, sì che sapessero che non aveva paura, ché altrimenti sarebbe stato già un uomo morto.
Ai giovani del nord e del sud occorre indicare sempre ad esempio il comportamento dei Meli, i quali, a testa alta, dissero ai greci che volevano sottometterli che “sarebbe grande viltà e debolezza non affrontare ogni rischio della lotta prima di essere fatti schiavi”: solo così infatti essi hanno salvato e tramandato alla memoria dei posteri la loro dignità di uomini liberi e chiunque voglia essere uomo non può non seguire la fulgida strada da loro indicata; ché, come amava ripetere Sciascia, solo l’eretico, cioè chi sceglie non pronandosi al potere altrui, è un uomo.
Luigi Ficarra, impegnato sin da giovane nel movimento operaio, prima nel PSI con Lelio Basso, poi nel PSIUP, nel PCI ed ora nel PRC, è sempre stato sostenitore delle posizioni di Rosa Luxemburg. Ha lavorato nei primi anni '60 nel centro studi economici della CGIL siciliana diretta da Pio La Torre, ed ampio è stato pure il suo impegno nel movimento universitario, come dirigente dell’UGI. Da avvocato, ha sostenuto e sostiene importanti battaglie in difesa della laicità della scuola e dei diritti dei lavoratori.