Testimonianza di un fotografo che vive a Port au Prince. “Eppure la gente non ha perso il sorriso. È abituata alle catastrofi e all’arroganza dei guardacoste americani. Oggi la situazione è triste, ma l’angoscia è il domani. Quando tv e giornalisti andranno via, resteremo soli nell’ombra e comincerà la paura”
Desolazione, paura, aiuti che arrivano in Haiti, ma non alla gente. I morti sono per lo più stati tolti, ma non quelli sotto le macerie. Tanta puzza di cadaveri e di escrementi vari. Cumuli di macerie ovunque. Tanti i perduti, cari e meno cari, gente senza volto, come le rovine di case irriconoscibili, rase al suolo, senza dignità che ne sia restata. Un paese condannato e senza fortuna. Una delle preoccupazioni più grandi, alla radio, nelle conferenze ufficiali, è quella che ancora una volta gli haitiani passino per un popolo di gente incapace, che non sa gestire l’emergenza, che non merita, gente cattiva, gente che ruba e stupra in situazioni come questa. La ricostruzione prenderà tempo, e se la classe politica lo permetterà si potrà avere un paese con delle infrastrutture. Una speranza e basta. Ma chi ci crede? Bisogna crederci, ma lo si fa scetticamente. Sgomento e smarrimento per l’oggi, ma ancor di più per il domani. In tutto questo, colpisce il senso d’abitudine con il quale la situazione viene affrontata. Tanti hanno perso tanto, alcuni tutto, ma è come se fosse stato messo in conto da sempre in una Haiti che alle catastrofi è stata costretta d abituarsi, dall’inizio, dall’arrivo dei “bianchi” in poi: massacri, schiavitù, uragani, rivoluzioni, colpi di stato, embargo, alluvioni, incendi, dittature, occupazioni…e poi dell’haitiano ci si lamenta…Gente piangere ne ho vista solo la sera stessa del grande sisma. Per lo più genitori che non ritrovavano i figli. Poi niente, mai. Quando sono entrato nei campi degli sfollati, sono stati dei sorrisi che mi hanno accolto, e ancora oggi, una settimana dopo, quasi senza aiuti, ad un sorriso, rispondono ancora con un sorriso, vero, genuino. E se si dice che c’è violenza, stupri e razzie, deve sicuramente essere vero, ma io ho visto pochissima violenza pur avendo girato la città in lungo e in largo.
La vita in Haiti è un terno al lotto, e in fondo lo si sa che oggi è così, ma il domani, come si dice senza fallo, è solo “si dye vlè” (se dio vuole). E ogni tanto pare che dio si arrabbi, che gli prenda male o che non voglia… Il senso di inutilità è tanto perché gli aiuti non arrivano a destinazione, o ancora troppo poco. E paradossalmente sembra che ci sia più tensione fra i vari inviati delle 1000 varie organizzazioni che fra la gente del popolo. E poi sono arrivati gli americani, i marines e i guardia coste(!) e altri ancora, sempre con la loro tipica arroganza, violenza verbale e aggressività, una vera manna per tranquillizzare la situazione. Da ieri questo popolo abituato a far fronte alla catastrofe come in altre parti del mondo si fa fronte all’inverno, si è rimboccato le maniche ed è tornato al lavoro. Certo, chi ha potuto, ognuno alla sua maniera e con le mercanzie restate. Il mercato era il mercato di un giorno qualunque. Credete che questo dia gioia? Io l’ho vista come il segno di un popolo che sa di non potersi permettere un momento di lutto, ne di pausa perché non gli è concesso da nessuno. Oggi la situazione è triste. Quella del domani fa paura. Il futuro prossimo, quando l’emergenza sarà passata e la massa incredibile di giornalisti che da un giorno all’altro hanno popolato le strade, come accade ciclicamente in occorrenza di ogni catastrofe, sarà scomparsa (una decina di giorni?), i nodi veri verranno al pettine e allora sì che la situazione diventerà esplosiva. Oggi, per la prima volta dopo la scossa, sono apparse le nuvole, grigie e pesanti. Stanotte ha cominciato a piovere. Io ho una tenda sotto la quale dormire, ma so che siamo in pochi ad avere questo privilegio. Un saluto affettuoso a tutti.
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Roberto Stephenson è nato a Ville de Port-au-Prince, Haiti. Fotografo, ha fondato e dirige la Fondation MWEM (Centre Expérimental pour la Communication Visuelle).