«L’Italia deve far fronte a grossi rischi per la propria finanza, per la propria economia. Deve riuscire a fare bene la sua parte per l’Europa e per se stessa, e quindi chiede sacrifici agli italiani di tutti i ceti sociali, anche agli italiani dei ceti meno abbienti», ha detto il presidente della Repubblica, Napolitano, alla tv il 16 dicembre 2011. E perché questa richiesta di sacrifici anche ai già «meno abbienti»?
«…Perché si facciano le scelte indispensabili al fine di preservare lo sviluppo della nostra economia e della nostra società in un clima di libertà e di maggiore giustizia». E tutti capiscono che in questa società italiana che «bisogna preservare», non c’è giustizia, perché ne occorre una «maggiore». La giustizia è come la libertà: o c’è o non c’è. Si parla sempre di minore o maggiore, naturalmente, ma sono termini per tenere calmi gli animi, per assopire il pensiero; per schiacciare psicologicamente i cittadini. Certo, tutti lo capiscono, ma il mondo va così in fretta, che pochi o nessuno riflette sulla realtà.
Allora riflettiamo su chi bisogna sopire: i ceti meno abbienti, in modo tale che stiano zitti quando si devono far pagare a loro i debiti e le ricchezze accumulati dai ceti più abbienti. Insomma: i poveri devono compensare con i loro sacrifici, quello che già hanno fatto loro perdere i ricchi. Devono aggiungere sacrifici ai sacrifici già fatti. I ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri: l’economia e la società da preservare «in un clima di libertà e di maggiore giustizia».
Forse il presidente voleva dire qualcosa di diverso, e questa mia interpretazione non è corretta. Mi sono dunque spaventato per niente? Una volta, quando il presidente di oggi era un esponente del Partito comunista italiano, i ceti meno abbienti venivano chiamati il proletariato, le classi o le masse lavoratrici; mentre la Chiesa, che non amava dividere il suo popolo in classi e aborriva il termine «proletariato», li chiamava semplicemente «poveri». Si richiamava a Gesù e a Francesco d’Assisi.
Sono stato istruito sulla base del Vangelo, un comunista dei tempi del presidente Napolitano si è istruito – immagino – su Marx. Per me il cristianesimo, per lui il comunismo. Per me San Pietro, per lui Stalin. Quando dicevo e dico povero dico «povero», e chiamo «ricco» il ricco. Un comunista chiamava l’uno «proletario», l’altro «capitalista». Sia il Partito Comunista, sia la Chiesa, ognuno alla sua maniera e col suo linguaggio, dichiaravano di difendere i poveri.
Nessun cristiano avrebbe mai pensato di dire ai poveri: «Dovete dividere i sacrifici con i ricchi». I poveri ne facevano già abbastanza. Avevano semmai il diritto di chiedere o, meglio, il diritto di avere, non quello di continuare a dare. I sacerdoti gli chiedevano pazienza, che a me (stando a quello che imparavo dal mio parroco, Primo Mazzolari) pareva già una bestemmia. Gesù non mi sembrava molto paziente, anzi.
don Zeno Saltini (Fossoli di Carpi, 1900 - Grosseto, 1981)
Don Lorenzo Milani preconizzava che un giorno i poveri avrebbero potuto prendere in mano i loro forconi e fare un bagno di sangue nella società; don Zeno Saltini, l’ideatore di Nomadelfia, gridava nelle piazze in favore dei suoi ragazzi: «Padre Lombardi dice sempre: i ricchi devono dare. Sta’ a sentire: perché non insegni alla gente che deve prendere? Noi non siamo contro nessuno, è il governo che è contro di noi». A quel tempo il governo era democristiano: «È un governo cattolico quello che lascia maneggiare miliardi agli speculatori?».
Nessun comunista, nemmeno il più tiepido, ai tempi del Pci di Napolitano, avrebbe aperto un comizio dicendo: «Proletari di tutto il mondo unitevi e aiutate i capitalisti a preservare questa società». Quale comunista o ex comunista può dire, oggi, senza un brivido che per preservare questa società i proletari devono fare i sacrifici come i capitalisti? Che occorre fare le liberalizzazioni anziché le nazionalizzazioni? Che occorre salvare i possessori di banche anziché i lavoratori?
A Milano vedo molti, moltissimi poveri; qualcuno è in camicia e cravatta, altri sono «barboni». Dormono in strada, nei giardinetti, in auto, sotto i portici. Qualsiasi cristiano e comunista o ex comunista li può vedere. Ne segnalo alcuni gruppi tra piazza del Duomo e piazza San Babila, nella Corsia dei Servi, accanto alla chiesetta di San Vito e al Centro Giuseppe Lazzati (cioè in un cuore, diciamo, cattolico della città: quello di frati, preti e laici di fede profonda e idee sociali molto avanzate). Feste e luci di Natale. A causa del freddo sono distesi sul lastrico, sotto coperte colorate di vario genere, sotto cartoni anche in pieno giorno: si vedono le teste che parlano tra loro. Venga, Presidente, ad ascoltarli. Non li ascolta nessuno.
Mario Pancera, giornalista e scrittore. Tra i suoi libri, una testimonianza diretta e affascinante su Don Mazzolari, parroco dalla parte dei contadini diseredati: “Primo Mazzolari e Adesso: 1959- 1961” ('Adesso' era il giornale che Mazzolari pubblicava). Ultimo lavoro di Pancera “Le donne di Marx”, edizioni Rubettino